Nel film Barbie di Greta Gerwig c’è una scena che esprime perfettamente i limiti e la problematicità dell’utilizzo del significante patriarcato per designare una struttura di potere ancora operante nella nostra società postmoderna contro cui ribellarsi. Ken, interpretato da Ryan Gosling, ha lasciato Barbieland ed è arrivato a Los Angeles. Scopre un mondo in cui gli uomini esprimono virilità e hanno potere. La prima cosa che fa è recarsi in una biblioteca scolastica per accedere all’orizzonte simbolico in cui si trova. Prende da uno scaffale quattro libri: The Origins of the PatriarchyWhy Men RuleMan and Wars e infine Horses. Se provate a cercare online questi testi non li troverete: Greta Gerwig sceglie di mostrare solo libri immaginari, creati ad hoc per il film. Con l’eccezione di uno. Si tratta di Man & Horse. The Long Ride Across America del 2017 di John Egenes, presente nel Mojo Dojo di Ken, che Greta Gerwig ha personalmente regalato a Ryan Gosling durante le riprese, come si vede da una foto di scena, e che l’attore ha letto e apprezzato. Ma torniamo ai libri immaginari di Ken, la cui natura fittizia è sottolineata da due fatti. Primo: c’è almeno un libro reale nel film, e non parla di patriarcato; secondo: Ken non finge neppure di leggere i libri immaginari, si limita a prenderli

Se nel classico film hollywoodiano “il momento della biblioteca” è quello in cui i protagonisti, di fronte a un qualche enigma che si presenta nella realtà, accedono a un sapere che permette loro di decifrare la realtà, nel caso di Ken le cose procedono diversamente. Greta Gerwig avrebbe potuto realizzare una sequenza in cui, con musica in sottofondo, avremmo visto Ken impegnato a sfogliare i libri, leggerli, acquisire un sapere mentre fantasticava di cavalli, guerre, ruoli di potere. Niente di tutto questo. Ken semplicemente si impadronisce di alcuni significanti, o meglio, di un solo significante, patriarcato, scritto a chiare lettere sulla copertina di un libro immaginario con cui prova a spiegare tutta la realtà in cui si trova. L’effetto di questa operazione non è però la comprensione della realtà, ma il suo travisamento che genera comicità involontaria. Uscito dalla biblioteca, Ken incontra una donna che gli chiede l’ora. Ken risponde “non lo so” e poi domanda alla donna: “Perché Barbie non mi ha parlato del patriarcato che da quanto capisco è dove gli uomini e i cavalli controllano tutto?”. La donna, sorridendogli come se si trovasse di fronte a un idiota, risponde: “Certo”. A questo punto Ken si rivolge a un uomo in giacca e cravatta a cui dice: “Voglio un lavoro di alto livello, ben pagato e influente”. L’uomo risponde che occorre avere almeno un master e magari un dottorato, e Ken stupito domanda: “Essere un uomo non basta?”. L’uomo risponde: “Veramente adesso è quasi l’opposto”. A questo punto Ken sentenzia: “È chiaro che non state applicando il patriarcato molto bene!”. L’uomo cambia espressione, usa un tono di confidenza e dice: “No, no, lo applichiamo bene ma lo nascondiamo meglio ora”. 

Ecco cosa ci mostra questo passaggio centrale del film Barbie: la società patriarcale in cui in effetti essere uomo era sufficiente per occupare legittimamente una posizione di potere gerarchico che subordina le donne, nella realtà delle democrazie occidentali contemporanee, non esiste più. Per questo oggi patriarcato non è un significante che rinvia a un sapere (a un libro reale) attraverso cui leggere la realtà, ma un significante vuoto che non spiega più nulla. Questo naturalmente non significa che non ci sia più dominio maschile, ma che questo dominio, questo potere, non è più apertamente legittimato e sostenuto da un ordine simbolico: è un potere che deve agire di nascosto, in altre forme che non possono trovare pubblico riconoscimento perché in ambito istituzionale, politico, sociale e culturale si riconosce l’eguaglianza di genere. Questa distinzione non è certo un’invenzione di Greta Gerwig. Nell’ambito del variegato panorama dei femminismi contemporanei da molti anni si parla di post-patriarcato, fine del patriarcato, di dominio maschile dopo il patriarcato. La stessa psicoanalisi ci dice che stiamo vivendo la crisi di un ordine simbolico al cui cuore c’è il venir meno dell’autorità paterna, cioè del padre come arché, come principio ultimo e fondamento dell’ordine simbolico.

Se già nel 1938 Lacan scorge un declino dell’imago paterna, trent’anni dopo parlerà di «evaporazione del padre» mentre altri parlano di «polverizzazione» o «rarefazione del padre». In modi diversi, spesso in conflitto tra loro, si prova a leggere qualcosa che il significante patriarcato, da solo, non è più in grado di cogliere da molto tempo: la crisi di un ordine simbolico a cui non si associano automaticamente solo nuovi spazi di libertà per le donne ma una crisi del paterno, e conseguentemente del maschile, che può generare violenti effetti di ritorno. Che tipo di effetti? Da un lato, il potere indebolito dei padri, al di fuori del simbolico, ritorna come violenza; dall’altro i figli, orfani di una figura paterna “degna di questo nome”, non hanno avuto accesso allo sviluppo autonomo della loro personalità, e sono dunque figli fragili e violenti perché incapaci di autocontrollo, di sopportare limiti, frustrazione, rifiuto, negazione. Per questo Lacan, nel Seminario XXIII, metterà in guardia rispetto a una sbrigativa e giubilatoria liberazione dal Nome del padre: «Si può fare a meno del Nome del padre, a condizione di sapersene servire». 

In un testo del 1996 pubblicato su “Sottosopra” (periodico legato alla Libreria delle Donne di Milano), che si apre con il paragrafo «il patriarcato è finito», si può leggere: «”La donna non ha di che ridere quando crolla l’ordine simbolico”, scrisse la filosofa Julia Kristeva nel 1974, consapevole che i crolli […] spesso fanno nascere più problemi di quelli che risolvono. Noi abbiamo voglia di ridere lo stesso, ma ci domandiamo: e adesso? Che cosa capiterà al mondo e a noi stesse adesso che le vite femminili e i rapporti con gli uomini non sono più o saranno sempre meno regolati dal simbolico?». Domande che sono all’ordine del giorno e che ci interrogano drammaticamente di fronte alla violenza maschile che si scatena contro le donne, violenza che è illusorio cercare di leggere, o meglio di esorcizzare, come un gesto figlio del patriarcato e che piuttosto erompe dal cuore della sua crisi.

Occorre a questo punto porsi una domanda. Perché di fronte alla consapevolezza generale della crisi di un vecchio ordine simbolico, alla cui decostruzione hanno contribuito in modo fondamentale i movimenti femministi, c’è ancora chi usa ancora il significante “patriarcato” per leggere ciò che accade? È chiaro che questo utilizzo non usa il significante “patriarcato” in senso proprio, come descrizione storico-antropologica di una società strutturata in modo patriarcale in cui il potere è concentrato interamente nelle mani dei maschi più anziani del gruppo. Ma allora perché continuare a utilizzare nel 2023 questo significante arcaico? Perché, per usare le parole di Massimo Ammaniti (“La Repubblica”, 23 novembre 2023), «in modo inatteso e anacronistico si è tornato a  discutere in modo polemico di patriarcato»? Di che cosa è il nome questo significante vuoto? Dell’illusione di controllo di cui parlava Ken

Patriarcato è una parola arcaica e magica che permette ancora di credere in un nemico strutturale da combattere che ordina il tutto, che struttura la società, la politica, la cultura, i corpi, i comportamenti dei singoli al di là delle loro buone intenzioni, e dalla cui sconfitta sorgerà una società buona e giusta, perché il problema è una struttura di ordine simbolico. Patriarcato è il nome rassicurante del grande Altro che terrebbe in pugno le sorti del mondo. Non a caso chi si aggrappa a questo significante vuoto è ossessionato dalla battaglia nel campo del linguaggio. Tutto questo è confessato senza troppi giri di parole proprio da chi usa il termine “patriarcato” e che non esita a rispolverare vecchie e usuratissime coppie concettuali come “struttura e sovrastruttura”. In un articolo dal titolo Siamo ancora sotto le bombe del patriarcato, pubblicato su Alias del 2 dicembre 2023 interamente dedicato alla Patriarchia, Simona Bonsignori parla della «struttura (per tirare in ballo Marx) su cui si incista la sovrastruttura data dai modi in cui i corpi sono rappresentati dentro i processi sociali, e culturali». Lasciamo stare l’opportunità di “tirare in ballo Marx” per accreditare come buona la coppia di struttura e sovrastruttura; è chiaro però da dove venga questa lettura patriarcale della nostra società. Se Ken poteva liberamente sostituire il significante “patriarcato” con “cavalli”, qui potete tranquillamente sostituire “patriarcato” con “capitalismo” oppure usare la formula che circola in certi ambiti femministi “capitalismo patriarcale”.  

C’è una nostalgia del patriarcato come struttura simbolica forte che ci protegga dai mali del presente e c’è una nostalgia del patriarcato come struttura simbolica forte a cui attribuire tutti i mali del presente, un sorta di peccato originale da purificare. Non è un caso che chi evoca il patriarcato chieda a tutti gli uomini di confessare le loro colpe (“penitenziagite!” avrebbero detto gli Apostolici; “fate autocritica” avrebbero detto gli adepti di un altro noto movimento messianico), di dichiararsi responsabili di fronte a qualcosa di cui sono parte e che governa le loro esistenze, che lo vogliano o meno: responsabili del patriarcato che li genera, li determina, li governa come soggetti. Questi due tipi di nostalgie, in apparenza opposte, sono speculari e condividono un’unica esigenza di semplificazione che cancella, in nome delle strutture, le pratiche di soggettivazione che non si lasciano sussumere in nessuna struttura, l’inventività dei corpi irriducibili al linguaggio, la creatività di una cultura che non è mai stata semplicemente la manifestazione di una qualche struttura

Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Note sur le père, “La Cause du désir”, n. 89, mars 2015.   
Id., Il seminarioLibro XXIII. Il Sinthomo, 1975-1976, testo stabilito da J.-A. Miller, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 2006. 
M. Recalcati, Cosa resta del padre. La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2017. 
L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2016.

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