Succedono cose strane a Marwen”. Un aereo delle forze alleate sorvola i cieli del Belgio occupato durante la Seconda guerra mondiale. All’interno c’è un coraggioso pilota inseguito da uno stormo di caccia nazisti che colpiscono il suo velivolo e lo costringono a un atterraggio di emergenza (proprio come accadeva al comandante civile Whip Whitaker all’inizio di Flight). Il protagonista Hogie si schianta al suolo salvandosi con destrezza, ma il fuoco fonde i suoi anfibi militari e lo costringe a indossare scarpe femminili con tacchi a spillo (che verranno inventati solo negli anni cinquanta, certo, ma continuano a “succedere cose strane a Marwen”). Hogie viene minacciato, ridicolizzato e infine pestato selvaggiamente da un plotone di soldati tedeschi sino all’apparizione di un gruppo di meravigliose donne guerriere che uccide i nemici riportandolo a casa ferito ma salvo. Stop (motion).

Dove siamo? Cosa è successo? Il nuovo film di Robert Zemeckis è paradossalmente “tratto da una storia vera”. Quella del fotografo e artista Mark Hogancamp. Un uomo che ha una forte passione per le scarpe femminili, le colleziona, a volte le indossa, perché ama follemente le donne e quindi “ama indossarne l’essenza” come dice candidamente. Insomma una esibita e sincera non conformità ai codici sociali della sua piccola comunità che lo fa cadere preda di un gruppo di neonazisti omofobi che lo picchiano sino a fargli perdere la memoria dopo ben nove giorni di coma (storia raccontata con dovizia di particolari in un documentario del 2010, Marwencol, di Jeff Malmberg).

E allora come sopravvivere quando ci si risveglia senza ricordi, con il fisico minato e in preda a nuove dipendenze (da farmaci)? Per Mark c’è una sola risposta: creare un universo fittizio nel giardino di casa, una sorta di installazione (emotiva) dove ambientare un codificato “viaggio dell’eroe” muovendo piccoli pupazzi resi “vivi” nelle sue fotografie iperrealiste. La rielaborazione del trauma che lo divora in fuori campo, pertanto, plasma un universo alternativo (popolato dalle persone/personaggi che conosce) azzerando filosoficamente ogni referenza reale a tempi o spazi.

Ci risiamo, quindi. Nel cinema di Robert Zemeckis le verità nascoste sono sempre visibili sulla superficie dell’immagine, proprio perché i contact emotivi dei suoi personaggi sono inscindibili da quel ciclico ritorno al futuro che riattraversa l’immaginario popolare americano come mappa condivisa. Ecco che i quesiti che animano da sempre il cinema di Zemeckis (come dar forma al tempo e come progettare lo spazio?) trovano radici nelle potenze originarie dell’immagine filmica rimediate nel XXI secolo.

Il raccordo, prima di tutto. L’obiettivo analogico di Mark Hogancamp viene subito palesato dalle marche enunciative della sua macchina fotografica, una Reflex, creando un costante link tra il mondo fenomenico e l’universo finzionale. Ed è proprio in quello stacco di montaggio tra occhio e sguardo che Zemeckis allude ancora una volta al complesso processo di creazione dell’immagine cinematografica come perenne mediazione tra tecnica e sentimento. Un’umanità che (benjaminianamente)  si prepara a sopravvivere alla civiltà alludendo alla fusione del corpo umano con la plasmaticità del mondo di Mickey Mouse che tanto impressionava Ėjzenštejn negli anni trenta (e che la trilogia Polar Express, A Christmas Carol e  La leggenda di Beowulf  ha definitivamente sancito negli anni duemila).

La profondità di campo, poi. Dopo quello stacco di montaggio che da Marwen ci riporta alla live action notiamo qualcosa agitarsi in lontananza. Alcuni operai scendono da un camion per traslochi parcheggiato vicino il giardino di Mark; una insegna ci fa chiaramente leggere: “Allied”. Ecco, in questo dettaglio (in)visibile, in questa virgola intertestuale posta ai margini del fotogramma, Zemeckis trasloca idealmente il suo sguardo sul mondo accanto alla casa di Mark. E lo fa nelle sembianze di Nicol, ennesima donna delle meraviglie che si aggiunge alle muse dell’artista dando nuova linfa (e nuove storie) alla sua privata lotta contro la strega cattiva di Oz (ops…di Marwen) che rianima i fantasmi nazisti tra passato e presente.

L’immaginario popolare, quindi. “Perché la Seconda guerra mondiale?” domanda Nicol. “Beh… perché almeno allora eravamo i buoni”, risponde Mark. La guerra al nazismo come referente immaginario hollywoodiano da riattraversare, quindi il trauma collettivo per antonomasia che deve nuovamente diventare il segno dei Migliori anni della nostra vita (il capolavoro di William Wyler del 1946 è uno dei tanti riferimenti sotterranei).

Eccoci al punto. Marwen è di per sé un nome composito: una crasi tra le iniziali di Mark e Wendy, la donna che lo salvò dal pestaggio, ora confinata in fuori campo perché “si è rifatta una vita in California”. Un nome che è in attesa di mutare in Marwen-col, però, con l’arrivo improvviso di Ni-col (quindi di Allied) che ridiscute le traiettorie di spazio e tempo nell’universo alternativo di Hogie. Insomma: la coalescenza di referenze che spaziano dall’universo privato di Mark alla storia del cinema hollywoodiano crea un magma immaginario che rifunzionalizza nel XXI secolo il ragionamento sullo statuto dell’immagine cinematografica. Perché è proprio questa coalescenza di epoche storiche e tracce immaginarie che viene percepita nell’ibridazione tra stop motion, live action e computer grafica. Il cinema di Zemeckis configura ancora una volta lo scarto tra (dispositivi di) visione e (medium della) credenza restituendo una memoria (mediale ed emotiva) al personaggio di Mark.  

Di nuovo un film sul cinema? Sì, certo. Il giardino di Mark Hogancamp diventa l’ennesimo regno delle utopie zemeckisiane che coagula ossessioni private (di un nuovo Forrest Gump) e miti condivisi (la Monument Valley che troneggia sulla parete di casa), dichiarando nuovamente di “mentire su tutto tranne che sui sentimenti” (proprio come nel capolavoro Allied). Benvenuti a Marwen, quindi. Perché un film sulla sublime meraviglia di tornare a vivere è di per sé un film meraviglioso.

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