Il centenario della nascita di André Bazin, insieme al sessantenàrio della sua scomparsa e alla recentissima pubblicazione dell’intero corpus dell’opera baziniana, a cura di Hervé Joubert Laurencin, ci sono sembrate occasioni imperdibili per tornare a riflettere sul valore di quella particolare esperienza critica e teorica che lesse e comprese, meglio di qualunque altra, il valore estetico-politico del Neorealismo italiano. Rese inoltre possibile la formazione di una nuova generazione di registi che, in Francia ma non solo, avrebbero lavorato ad una radicale re-invenzione del linguaggio cinematografico: mi riferisco, come è evidente, alla Nouvelle Vague e a tutte le sue successive propaggini, europee e non.

Ci siamo chiesti perché, a cinquant’anni dalla sua morte, l’opera di Bazin fosse ancora oggi un punto di riferimento imprescindibile per quanti, a vario titolo, si occupano di cinema. Per dirla sinteticamente, ci siamo chiesti a cosa andasse attribuita l’attualità del pensiero di Bazin. La risposta, a cui presto siamo giunti, ha a che fare con quello che è diventato l’oggetto multiforme di questo convegno: la questione del “realismo cinematografico” e la sua concretizzazione in oggetti filmici, capaci di contrapporre realtà contro finzione, documentazione contro messa in scena.

Il reale, dunque, non si dice se non attraverso un lavoro di mediazione, se non come prodotto di una costruzione: questo il presupposto teorico sotteso all’impianto complessivo del convegno. Il modo in cui Bazin legge i capolavori del Neorealismo italiano – come un quasi “reportage” sull’Italia postbellica, sulla sua miseria, i suoi dolori – lascia emergere un’idea di “realismo estetico” che certamente influenza un’intera generazione di cineasti ed è forse, tutt’oggi, lo strumento più utile per descrivere le tendenze che attraversano l’universo complesso della produzione audiovisiva contemporanea, diventano interpretazione del cinema e della televisione odierna.

Allo stesso tempo, sin da subito, è stato ben chiaro che tornare a proporre come tema di discussione una questione complicata, come quella del “realismo”, dovesse corrispondere all’esigenza di occuparsi di oggetti concreti (prodotti audiovisivi), che da decenni non smettono di porre domande, oggi divenute ancora più radicali. Una questione non solo complicata, ma per certi versi addirittura abusata ed equivocata: basti pensare al clamore sollevato, qualche anno fa, dal dibattito animato da Maurizio Ferraris, promotore del cosiddetto “new realism”, al quale ha fatto seguito la querelle nata, più di recente, attorno all’idea di “post-verità”.

Visto in questa prospettiva, il reale, ancor prima che un problema “estetico” – sollevato certamente dalla necessità della sua messa in forma –, è un problema politico e per questo profondamente inquietante. Il reale fa paura, basta guardarsi intorno per rendersene conto e fa paura indipendentemente dal livello di mediazione, attraverso il quale esso ci è restituito. Tre esempi, due dei quali riguardano la Francia che fu di André Bazin, possono esserne una conferma: dalla documentazione finalizzata unicamente all’informazione, fino alla rielaborazione di un dato reale in un prodotto di finzione.

C’è un reale che ci interroga e ci inquieta nelle immagini che arrivano – da qualche settimana a questa parte – dalle strade di Parigi, messe a ferro e fuoco da una moltitudine la cui composizione è ancora difficile da decifrare e da un enorme dispiegamento di forze di polizia. Sono le immagini realizzate, ad un grado minimo di elaborazione, da chi – sebbene in posizioni di volta in volta diverse – assiste o partecipa agli scontri.

Conferma la nostra idea, che il “reale” continui a rappresentare un nodo estetico-politico inquietante, la vicenda di censura che ha interessato di recente il lavoro di un gruppo di fotografi e intellettuali, alcuni dei quali italiani (Patrizio Esposito e Gianluca Solla). Si tratta di un corpus di quasi 500 fotografie dedicate alle persecuzioni subite dal popolo Saharawi, pubblicate in un volume qualche anno fa ed esposte in una sala del Centre Pompidou, ancora a Parigi. La notizia è passata quasi del tutto in sordina, malgrado o forse in virtù della sua gravità: in seguito a una lettera del governo marocchino, il museo ha deciso di rimuovere le fotografie e chiudere la sala al pubblico.

Infine, è forse il caso di ricordare il film dedicato alle ultime ore di vita di Stefano Cucchi, Sulla mia pelle (di Alessio Cremonini), presentato lo scorso settembre alla Mostra del Cinema di Venezia ed uscito contemporaneamente in sala. Il film conserva un legame con il “reale”, non solo perché racconta un fatto di cronaca, un fatto realmente accaduto, ma perché contribuisce a ridefinire in termini politici quello stesso punto di partenza, che non potrebbe più essere lo stesso, dopo che un racconto gli ha dato una forma propria. Le confessioni di alcuni agenti di polizia, a seguito dell’uscita del film, restituiscono il senso dell’operazione di cui stiamo parlando.

Per rispondere a questo tipo di domande abbiamo immaginato le giornate che ci aspettano come un’occasione di confronto fra studiosi e registi, ai quali oggi, forse ancor più che ieri, è affidato il compito urgente e prezioso della mediazione. Spetta a loro rendere leggibile un reale sempre più difficile da afferrare, a noi studiosi interpretarlo, facendo uso di quegli oggetti misteriosi che continuano a essere le “immagini in movimento”.

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