Non c’è dubbio che le eccezioni politiche o i casi poco maneggiabili a Hollywood suscitino l’interesse dei cinefili. Più Mel Gibson si è mostrato negli anni oscuro, contraddittorio, reazionario, biblista e quindi reietto dalla Hollywood liberal, più gli appassionati hanno trovato nel suo cinema un grumo di rappresentazioni e discorsi antagonisti al mainstream democratico dei film da Oscar.
Come ha fatto, dunque, Mel Gibson a farsi perdonare gli eccessi degli anni scorsi, le accuse di antisemitismo, i demoni interiori (narrati in modo indiretto in uno strano film di Jodie Foster, con Gibson attore, Mr. Beaver del 2011) e raggiungere un Oscar e numerose candidature? Probabilmente attraverso un escamotage, che non è stato del tutto inteso da chi prima si schierava contro l’ingestibile autore. La battaglia di Hacksaw Ridge contiene infatti una titanica compresenza degli elementi più estremi dell’ideologia gibsoniana e della superficie patriottica di certo cinema storico e biografico, molto in auge negli anni duemila.
La vicenda di Desmond Doss, avventista del Settimo Giorno, e della sua paradossale partecipazione al secondo conflitto mondiale, si pone apertamente in discontinuità con gli altri film di Gibson, attratti dalla violenza sacrificale e dall’iconografia primitiva del sangue secondo dettami di rappresentazione biblica vicini a certa figurazione delle congreghe della destra cristiana americana. In fondo, la grande impresa di Gibson con La passione di Cristo (2004) è stata quella di imporre all’attenzione mondiale, e persino al clero, una visione apocalittica della Passione, dove precipitavano in un colpo solo elementi sadici cari ai gruppuscoli del nuovo puritanesimo statunitense (ma forse comuni alla storia del sacro) ed exempla liturgici da manuale.
Questa volta non ci sono state polemiche, invece, né accuse di alcun
genere. Il suo eroe che si rifiuta di prendere le armi, seguendo il voto di non alzare le mani contro il nemico (persino quando i nemici sono i giapponesi alleati ai nazisti), somiglia molto alla cocciuta deferenza dell’autore verso i dettami religiosi. Al contrario, la vicenda di redenzione – Desmond Doss salva decine di compagni, dapprima scettici e poi rispettosi – porta il giovane avventista dal ruolo di vigliacco osservante alla dimensione epica del salvatore dei commilitoni feriti.
Gibson tiene fede al realismo brutale per cui è conosciuto, imponendo scene di battaglia particolarmente cruente. Ma, mentre in film come Apocalypto (2006), non c’era alcun elemento narrativo o simbolico in grado di addomesticare la funebre visione di tribalismo e di metastoria delle civiltà (corrotte e dunque conquistate dall’esterno), in La battaglia di Hacksaw Ridge il trauma – apparentemente – si ricuce. Il prezzo da pagare, per lo spettatore, è però quello di accettare una formidabile coincidentia oppositorum, ovvero un sanguinoso film di guerra su un pacifista che non vuole premere il grilletto, un’orazione esaltata per un membro inflessibile degli Avventisti, un melodramma che guarda al cinema americano degli anni quaranta (fino a sfiorare l’oleografia kitsch nella storia d’amore tra i due giovani protagonisti) e che al tempo stesso interrompe l’idillio con gli effetti distruttivi della guerra sul corpo umano, attraverso arti tranciati e budella al vento.
Aver scelto i codici più magniloquenti del melodramma americano, per il regista, non equivale però a un’opzione di trasparenza narrativa e di semplificazione stilistica per il grande pubblico. La battaglia di Hacksaw Ridge è un film chiaramente avvertito dagli spettatori degli anni duemila come stilisticamente manierista e volontariamente calligrafico. Piuttosto, la scelta rimanda ancora una volta ai contrasti simbolici cari alle coalizioni della destra cristiana statunitense, la cui iconografia viene costruita da anni attraverso un apparato mediale completamente lontano dai radar dei principali media contemporanei. Un’iconografia, questa, costruita attraverso riviste, fumetti, copertine di dischi, DVD e persino film girati per le sale, visto che esiste una produzione specifica di film evangelici con un pubblico tutt’altro che secondario.
In buona sostanza, quello che fa Gibson è utilizzare una retorica comune delle immagini hollywoodiane e contemporaneamente un idioletto della rappresentazione fideistica. Echeggiano, nei suoi film, le tesi sul sacro e sui capri espiatori di René Girard. Il sacrificio ne è la figura chiave – ed è del resto la figura chiave del cinema di Gibson dai tempi di Braveheart (1995). Questa volta, però, il sacrificio è quello degli altri soldati: a Doss è sufficiente (si fa per dire) mettere in pericolo il proprio corpo per meritare la fiducia e la protezione di Dio. Osserva e rispetta il dolore degli altri, rifiutandosi però di rimanere spettatore e dunque entrando nell’apocalisse disarmato.
Secondo Susan Sontag, davanti al dolore degli altri non è detto che siamo mossi a pietà, tutto dipende da come questo dolore ci è mostrato. Gibson, nei suoi film sull’antropologia delle civiltà e delle nazioni, puntava alla sproporzione del dolore e a rappresentare il sopruso attraverso la forma più elementare e simbolica del sadismo (di qui inevitabile l’accusadi masochismo per i suoi personaggi). Questa volta, la rappresentazione della violenza affronta il paradosso del protagonista (e del cineasta) che si mostra a mani nude, a corpo esposto, e pronto a negoziare con tradizioni che riconosce a malapena. Tradotto, per Gibson: il film di guerra hollywoodiano, il patriottismo americano, il modello melodrammatico classico. Negoziare, sì, ma solo mettendo in scena i paradossi, i conflitti e le lacerazioni di ogni compromesso artistico.
Riferimenti bibliografici
L. Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano 2014.
R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1992.
S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003.