Proviamo a confrontare tre strofe, scelte più o meno a caso, di tre grandi songwriter nordamericani. «Sedici anni, sedici bandiere unite al di sopra del campo dove il buon pastore soffre. Uomini disperati e donne disperate, divisi, aprono le loro ali sotto le foglie cadenti»: è Bob Dylan, e per capire di cosa sta parlando serve un dottorato in teologia. Proviamo con Leonard Cohen: «Vedo che te ne sei andata e hai cambiato nome di nuovo. E proprio ora che ho scalato tutta la montagna per lavare le palpebre sotto la pioggia!». Versi profondi, generati da un’interiorità separata dal mondo esterno, tanto che il mondo si riduce a un repertorio di metafore. E ora, Bruce Springsteen: «La mattina presto suona la sirena della fabbrica, l’uomo si alza dal letto e si veste, prende il portapranzo e si avvia nella luce del mattino». La chiarezza e la semplicità, per Springsteen, rappresentano una scelta prima etica e poi politica, il desiderio di rimanere con i piedi per terra. Di questo anzitutto si occupa quello che è ormai un testo di riferimento, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni di Alessandro Portelli, apparso per la prima volta nel 2015 e giunto alla seconda edizione riveduta e ampliata.

Il libro è un modello di approccio all’opera cantautorale e non alla biografia, sempre pronta a trasformarsi in agiografia come accade in tanta pubblicistica dedicata alla popular music. Portelli si concentra sulla dimensione narrativa e tematica delle canzoni di Springsteen, con alcune interessanti incursioni nella dimensione performativa, generate da osservazioni dirette. La questione musicologica resta inevasa, ma la scelta di campo dell’autore è ben definita: l’idea è quella di condurre il lettore in un’esplorazione sincronica dei versi, accostati per analogie tematiche e svincolati sia da periodizzazioni sia dai supporti (non è una storia e non è un’analisi degli album).

Il primo e necessario punto di accesso all’opera è per Portelli la giusta collocazione del songwriter nel pantheon nordamericano, orizzonte che l’autore aveva ampiamente descritto in Canoni americani (2004). Come abbiamo premesso in apertura, Springsteen non vuol essere un poeta o un letterato, e nemmeno un intellettuale; come spiega Portelli, egli si presenta come «un membro di quella categoria necessaria, diffusa e tanto spesso trascurata che va sotto il nome di common reader, i lettori comuni». Un uomo come tanti, che intende raccontare quello che fanno in tanti: cercare di tenersi un lavoro qualunque, non qualificato; cercare conforto negli altri, specie nella persona amata; sognare di modificare la propria condizione, ben sapendo che questo non avverrà. Al centro di tutto, la fragilità dell’American Dream, il crollo della fiducia nella mobilità sociale; dice l’artista: «Il mio lavoro è sempre stato quello di misurare la distanza fra la realtà americana e il sogno americano».

Le canzoni di Springsteen appaiono dunque come un’infinita variazione su questo tema, e Portelli si applica con metodo e passione a rilevare tutte le ramificazioni di quest’unico fiume, che nella poetica del songwriter non è metafora, ma casomai allegoria della vita che scorre. E proprio il testo di The River, sintesi di una poetica, racconta un’esperienza di vita che comincia con la ripetizione dell’identico: il protagonista della canzone nasce in quei posti dove ti fanno crescere per fare quello che fa tuo padre; poi mette incinta la sua ragazza, e tutto quello che ottiene è “una tessera del sindacato e un abito da sposo”; poi c’è il duro lavoro quotidiano, finché l’economia tira, e poi l’uomo si rifugia nella nostalgia per tutto ciò che non ha avuto dalla vita, fino al bilancio finale: «Un sogno che non si realizza, è una menzogna o qualcosa di peggio?».

In questo suo costante movimento tra la notte e il giorno, tra l’insoddisfazione della stasi e l’urgenza dinamica, Springsteen descrive in dettaglio lo spazio liminale tra il ricordo e il sogno, che per il Marcuse del Saggio sulla liberazione è il tratto distintivo della protest song: «Sembra che le poesie e i canti di protesta e di liberazione siano sempre o in ritardo o in anticipo: ricordo o sogno. Il loro tempo non è il presente; preservano la loro verità nella speranza, nel rifiuto dell’attuale».

L’unica concessione di Portelli all’analisi diacronica di quest’opera così compatta e coerente è il passaggio da una coscienza di classe implicita e individuale, quella che va dagli esordi agli anni novanta, fino alla recente adesione esplicita alla tradizione della canzone di protesta, che si concretizza in un uso politico del pronome plurale e in un incitamento a reagire alle ingiustizie. Questa svolta, peraltro non totalizzante, è senz’altro sincera e perfettamente comprensibile ai molti che non hanno mai scambiato Born in the U.S.A. per un inno sciovinista; per i pochi che non hanno capito di cosa parla il brano più famoso di Springsteen, c’è un illuminante capitolo del libro di Portelli.

Tuttavia lo Springsteen migliore resta probabilmente il narratore che si immedesima nell’individuo ordinario, nell’uomo della folla, che può essere il reduce di Born in the U.S.A. e persino l’assassino di Johnny 99. Come uno sceneggiatore, che scrive in previsione di una messa in forma altra (il film), lo scrittore di canzoni scrive storie in previsione di una messa in musica, la forma-canzone; e in queste forme di arrivo, dice Springsteen, «la tua voce scompare nella voce di quelli di cui hai scelto di scrivere».

C’è un ulteriore statuto ontologico di questi brani, l’esecuzione dal vivo, che per Springsteen non è solo spettacolo o rito; in alcuni casi (ben evidenziati da Portelli), è ripensamento e riconfigurazione del brano stesso, che nella versione performativa assume un nuovo significato. Youngstown è la storia di una città in Ohio fondata sulle fortune dell’industria siderurgica e poi crollata per il declino dell’industria stessa; Springsteen la incide con un organico semiacustico assegnandole il mood emotivo di una rassegnata ballad. Successivamente, visita la città in compagnia di uno studioso del movimento operaio e, da allora in poi, Youngstown dal vivo cambia strumentazione e andamento, cercando un mood più epico e arrabbiato, capace di restituire il senso di una comunità che non ha accettato passivamente quanto accaduto.

In alcuni passaggi del libro, Portelli ci conduce anche alla passione di Springsteen per il cinema; in particolare per John Ford, perché «ripete sempre la stessa scena ma è sempre diversa». Una considerazione analoga si può fare per le sue canzoni: sempre le stesse, sempre scritte da un uomo comune per la gente comune, e sempre diverse, come le persone a cui sono indirizzate.

Riferimenti bibliografici
H. Marcuse, La dimensione estetica, Guerini e Associati, Milano 2002.
A. Portelli, Canoni americani: oralità, letteratura, cinema, musica, Donzelli, Roma 2004.

Alessandro Portelli, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, Donzelli, Roma 2020.

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