Badiou essere evento
Viaggio in Italia (Rossellini, 1954).

Il secondo tomo della trilogia de L’essere e l’evento, Logiques des mondes, uscito nel 2006, si chiudeva con una questione che rimaneva aperta. Ogni “mondo” è capace di produrre delle verità, ma se le verità sono degli universali prodotti da mondi singolari, come è possibile arrivare a riconoscere l’esistenza di un’universalità in un mondo diverso rispetto a quello in cui quella stessa verità è stata concepita?

Partirei dal fatto che il tema de L’essere e l’evento, il primo libro che dà il titolo all’intera trilogia, era stabilire la relazione tra soggetto e verità dentro la dialettica tra l’essere, cioè il reale pensato nei termini di ciò che è, e l’evento, cioè il reale pensato nei termini di ciò che accade. Parliamo di due categorie, l’essere e l’evento, che oggi vivono una condizione di profonda crisi, tanto all’interno della filosofia quanto nella realtà tout court. Basti pensare che il problema dell’essere, ormai da parecchi anni, messo sotto il cappello del relativismo, è squalificato come una questione inutile e priva di fondamento logico. La stessa cosa vale per la categoria di evento, che è costituzionalmente avversata tanto dalla nostra società quanto dalla nostra cultura, direi non solo occidentale ma più genericamente mondiale. Viviamo in una società organizzata a partire da un’avversione alla categoria dell’evenemenzialità, a tutti i livelli, politici, sociali, economici, culturali. Se è vero che ciò è accaduto in ogni società storica, è vero anche che la nostra è una società fondamentalmente antirivoluzionaria che, a differenza del passato, ha inteso organizzarsi istituzionalmente per evitare ogni contraddizione oppositiva. Il ruolo sostanziale della democrazia attuale è proprio quello di ricondurre ogni contraddizione a uno scontro tra maggioranza e opposizione. Uno scontro che, in definitiva, nasconde un accordo effettivo su ciò che è, sul mondo dato. E non è tutto. A ogni aspetto della vita, anche ai più apparentemente neutri, è sottratta la sua natura evenemenziale. Persino una cosa come l’incontro amoroso è considerato oggi con sospetto, come ho scritto in varie occasioni. Viviamo quindi in una società anti-evenemenziale, in ogni senso, in cui i soli eventi concepibili sono quelli negativi come le crisi economiche, le guerre, i falsi eventi catastrofici e distruttivi, che sono connaturati alla struttura stessa del capitalismo, come ha dimostrato Marx.

Ma allora in questo contesto com’è possibile tematizzare la questione delle verità che sembra inconcepibile con la posizione relativista dominante?

Il punto è che lottare in nome dell’universalità è la più grande forma di opposizione che si possa pensare rispetto al pensiero dominante attuale. È impossibile pensare la struttura di quest’ultimo libro senza metterla in relazione al movimento più complessivo dell’intera trilogia a cui appartiene. Nel primo tomo de L’essere e l’evento, che ormai risale a trent’anni fa, spiegavo come per me era possibile pensare un’universalità delle verità prodotte da mondi singolari, un’esistenza cioè di verità prodotte in un essere inteso come pura molteplicità, che si struttura a partire da un evento e si definisce in termini matematici. Ma questa proposizione lasciava aperta una domanda: se una verità è universale, essa è pur sempre creata in un mondo specifico, esiste cioè solo e unicamente all’interno di un mondo singolare. Il problema del secondo volume, Logiques des mondes, era allora per me stabilire cosa fosse un mondo. Ma anche questa definizione lasciava aperta una questione: perché se esiste un’infinità di mondi possibili, e se dentro questa infinità singolare è possibile pensare un’universalità delle verità, com’è possibile affermare che tale universalità sussista anche in un mondo diverso rispetto a quello che l’ha prodotta senza che questa affermazione corrisponda a una volontà di dominio, di imperialismo del pensiero? L’ideologia oggi dominante del relativismo pensa che non esistano verità perché tutte le cose sono singolari e non universalizzabili. Per questo oggi l’universalità è considerata una forma di imperialismo, di imposizione della volontà di un mondo su un altro mondo. Questo è il punto fondamentale che affronto nel terzo tomo L’immanence des vérités.

Come recita il titolo, si tratta dunque del tentativo di definire il carattere immanente delle verità a partire dalla loro origine singolare e dal loro portato universale.

Esatto. Ma più specificamente la risposta che fornisco nel libro è che secondo me è possibile ritrovare tracce di verità universali nell’infinità dei mondi singolari solo nella forma dell’assolutezza. Esistono creazioni umane come quelle dell’arte, della scienza, della politica, e più in generale di alcune forme di vita come l’amore, che sono capaci di produrre un’esperienza assoluta del mondo in cui l’universalità e la singolarità possono coincidere. La mia proposta è dunque quella di pensare un’immanenza dell’infinito nel finito, dell’universalità nella singolarità, proprio nella forma dell’assolutezza.

Le verità sono dunque assolute, oltre che universali e singolari.

Precisamente. È come se oggi avessi chiuso finalmente i termini della mia dialettica, arrivando a concepire la percezione assoluta come qualcosa che esiste al di là della singolarità e dell’universalità, nella pura finitezza. La mia affermazione filosofica finale, se così si può dire, è che è possibile riscontrare una dimensione assoluta nell’immanenza senza far ricorso ad alcuna trascendenza. Esistono tracce dell’infinito in un’esistenza finita priva della mediazione di un infinito trascendente. Questo accade nelle grandi opere d’arte, nelle imprese politiche rivoluzionarie, nelle scoperte scientifiche, negli incontri amorosi, in quelle che io chiamo le procedure di verità.

Infatti la tesi principale dell’Inestetica è che l’arte in particolare, e poi il cinema nello specifico, produca verità singolari e autonome a partire dalle sue stesse procedure interne. Se l’arte è una produzione immanente dell’umano che risponde a leggi autonome e produce verità singolari, in che modo essa può riattivare istanze evenemenziali e universali in un presente che sembra negarle?

Per prima cosa io credo che questo tratto anti-evenemenziale della nostra società di cui parlavo debba costituire il punto di partenza per proporre la critica più radicale al nostro presente. Il tratto evenemenziale del reale va ripristinato a ogni livello: nell’arte, nella vita amorosa, nella creazione scientifica, nella politica. Poi bisogna evidentemente cercare nelle situazioni reali i punti di debolezza, le faglie, le fessure del sistema. È come se si dovesse mettere in campo una ricerca analitica precisa di quali siano gli spazi d’attività soggettiva rimasti scoperti dal sistema dominante, per poi cercare di “installare” una nuova vita, un nuovo pensiero, all’interno di questi scarti lasciati aperti. In secondo luogo, pensando al cinema, io credo che un’arte così strutturalmente legata alla costruzione di continuità (narrative, temporali, ecc.) possa produrre figure evenemenziali solo nella forma della discontinuità, nella forma cioè di una rottura del suo stesso flusso di continuità. Questo è ciò che è accaduto da sempre, a partire dal cinema delle origini, in grandi autori come Murnau, Ejzenštejn, Chaplin, Rossellini. La ricerca di un effetto di discontinuità poetico, simbolico, che restituisca e annulli la differenza tra continuità temporali ed effetti di durata, attraverso i dispositivi del montaggio o della messinscena, come nella scena del tram in Aurora, nei montaggi alternati de La corazzata Potëmkin, o nel finale di Viaggio in Italia. In altre parole, ogni linguaggio può e deve utilizzare i mezzi che gli sono propri per immettere nel contemporaneo, ai livelli più disparati, figure dell’evenemenzialità tanto nell’immaginario quanto nella realtà.

Apparentemente però, la produzione contemporanea cinematografica sembrerebbe allontanarsi sempre più dalla costruzione di questi effetti di discontinuità. A parte alcuni casi significativi, la produzione audiovisiva attuale sembra piuttosto produrre false figure evenemenziali come la spettacolarità pura, il catastrofismo, anche grazie ai nuovi mezzi digitali o multidimensionali. Oppure sembra essere una produzione schiacciata su un flusso indifferenziato di immagini mediali, senza forma né contenuto.

In realtà io non credo che la produzione indifferenziata di immagini anonime attuali sia necessariamente un fatto negativo o un depotenziamento del ruolo del cinema e della sua capacità di egemonizzare l’immaginario mediale, come è accaduto per gran parte del Novecento. Anzi, è come se negli ultimi anni stessimo assistendo ad un processo di de-industrializzazione dell’immagine cinematografica. È come cioè se la produzione di immagini indifferenziate attraverso i telefonini, o qualsiasi altro dispositivo tecnico così facilmente accessibile, potesse rendere la produzione di immagini sempre più vicina alla scrittura e l’immagine stessa alla parola. Certo, quello che viene prodotto ora è ancora un sistema di immagini anonime, come le ho appena chiamate. Ma esistono già, e non è detto che non accadrà sempre più in futuro, dei tentativi di scrittura delle immagini anonime, di vera e propria riorganizzazione semantica dei flussi di immagini in una nuova grammatica visiva capace di reimmettere il cinema nell’orizzonte del politico. È importante che il cinema possa svolgere un ruolo di “guida” nell’organizzazione dei nuovi flussi audiovisivi contemporanei. Perché questo processo di de-industrializzazione e soggettivazione della scrittura audiovisiva credo rappresenti un’importante occasione per una ri-politicizzazione del cinema e della sua capacità di produrre figure evenemenziali.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, L’immanence des vérités. L’être et l’événement, vol. 3, Fayard, Parigi 2018.

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