Uno spettacolo televisivo di un canale privato romano. Una notte di Natale qualsiasi degli anni ottanta. Amelia Bonetti (Giulietta Masina) e Pippo Botticella (Marcello Mastroianni), in arte Ginger e Fred, entrano in scena per cominciare il loro numero di tiptap. Improvvisamente un blackout e la trasmissione si interrompe di colpo. I due ne approfittano per sedersi sul palcoscenico vuoto, al buio, in attesa che la luce ritorni. Forse “la luce non torna più”, sussurra Pippo a Amelia mentre tutto intorno i macchinisti tentano di risolvere il guasto e far ricominciare la trasmissione. “Ma lo sai che non sto niente male qui”, aggiunge. “È come nei sogni, lontani da tutto, un posto che non sai dove sia e come ci sei arrivato”. Un buio rigenerante perché per un momento isola i due soggetti, li separa rispetto al fuori, permette loro di interrogarsi e di guardarsi fugacemente dentro di sé. Dopo il breve dialogo la luce ritorna, quel tempo sospeso lascia il passo all’ordinario corso delle cose e i due riprendono la loro performance.

In questa magnifica scena di Ginger e Fred (Fellini, 1986) è racchiuso il senso dello spettacolo Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, che la coppia Daria Deflorian e Antonio Tagliarini presentano in questi giorni al Romaeuropa Festival. Una riflessione sul tempo sospeso che (ci) permette di essere lontani da tutto come nei sogni, sul buio museificato del teatro, in cui gli spettatori sono metaforicamente accompagnati quando si apre il sipario nella prima scena, come fossero visitatori di un sito archeologico, che poi improvvisamente si rianima nella memoria degli spettacoli passati (da Pina Bausch a Leo De Berardinis), nel presente di chi lo abita nuovamente e nella direzione di un futuro possibile. Una sorta di anatomia del teatro che prende corpo su un palco rovesciato, nel dietro le quinte di un teatro generico dove si producono “rumori fuori scena”, in cui i diversi registri della scrittura metateatrale sono costantemente sovrapposti e sdoppiati. Due camerini visti frontalmente dal punto di vista delle quinte; il sipario chiuso che, in fondo al proscenio, lascia immaginare una platea vuota oltre il perimetro del teatro; Deflorian e Tagliarini che parlano e ballano, raccontano la loro vita personale e artistica di coppia, triplicandosi in altrettanti doppi che li ritraggono in momenti diversi della loro carriera.

Il pre-testo (un omaggio al dittico felliniano di Ginger e Fred) diventa dunque l’occasione per interrogarsi sul significato stesso dell’esperienza teatrale nel presente, sul suo blackout e sulla sua possibile riattivazione. Ma se rivolta agli spettatori una delle due controfigure di Deflorian in scena a un certo punto dice “ci siete mancati”, lo spettacolo sembrerebbe puntare a una direzione più complessa, per certi aspetti aporetica, della nostra condizione presente. Perché nel lungo blackout del teatro non si respira unicamente una tensione apocalittica (come in recenti esperimenti post-lockdown: da Tutto brucia dei Motus a Traces of Antigone di Elli Papakonstantinou), quanto la possibilità di riattivare una riflessione profonda sul senso stesso dell’arte scenica e del suo legame con la vita.

Come dice Pippo Botticella, il blackout è (stato) anche un momento di riappropriazione dell’esistenza intima a partire dal grado zero della vita, dalla sua più radicale interruzione. Il teatro ha dunque il dovere di farsi carico del portato veritativo che quell’esperienza ha prodotto (seppur nella forma di un’eccedenza alla sua natura tragica), senza doverlo tradurre, e dunque squalificare, nella forma immediata dell’interruzione e della catastrofe. Qualsiasi pratica di disgelo, come quella che stiamo vivendo oggi, non può fare a meno di risemantizzare quanto il blackout ci ha, anche, insegnato. E questo “insegnamento” attiene in primo luogo alla discontinuità delle forme sociali, culturali, teatrali, che il blackout ha attivato, nella ricerca costante delle sue possibili ricadute emancipative. Non è possibile, o sarebbe profondamente sbagliato, non cogliere i segni di questa discontinuità, facendo finta che essa non sia mai esistita o che debba essere al più presto superata e screditata.

Lo spettacolo di Deflorian/Tagliarini ha il merito di riattivare un’apertura di possibilità per il futuro del teatro, che è possibile unicamente se si legge il recente passato come un’alterità dialettica che si deve allo stesso tempo conservare e attraversare, e non come una pura negazione. Il blackout è un momento costitutivo, volenti o nolenti, di un processo di autocoscienza delle nostre prassi di vita di cui il teatro è parte integrante, in cui coabitano la nostalgia del presente e una visione profetica del domani. Questa sembra essere l’unica strada per riallacciare le fila di un discorso per un futuro possibile del teatro e non solo. Per tornare finalmente a ballare, come fanno Ginger e Fred.

Avremo ancora l’occasione di ballare insieme. Ideazione: Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (liberamente ispirato a “Ginger e Fred” di Federico Fellini); drammaturgia: Daria Deflorian, Antonio Tagliarini, Andrea Pizzalis; scenografia: Paola Villani; suono: Emanuele Pontecorvo; costumi: Metella Raboni; luci: Gianni Staropoli e Giulia Pastore; interpreti: Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini, Emanuele Valenti; produzione: Associazione culturale A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio Prato.

*Tutte le foto utilizzate nell’articolo sono di Andrea Pizzalis.

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