Dallo stato avvolgente e gassoso delle nuvole a quello solido e molteplice della terra, degli alberi, dei corpi; dallo stato mobile e dirompente del fuoco a quello fluido e diafano dell’acqua. È questo il movimento che si sviluppa nella prima parte del film più volte annunciato di James Cameron, il seguito del primo Avatar del 2009, ulteriore tappa di una saga già programmata (Cameron ha già girato gli altri episodi della storia che usciranno in sala in sequenza). È come se, infatti, sin dall’inizio del film fossero dispiegati i quattro elementi che determinano la sostanza del mondo e, al tempo stesso, la sostanza del cinema, di un cinema che non smette di muoversi secondo una doppia direttrice: da una parte un movimento discendente, diretto verso gli archetipi, le forme originarie della rappresentazione e della narrazione; dall’altra un movimento ascendente, verso una ricerca costante sulle possibilità dell’immagine digitale, attraverso l’uso e la sperimentazione di tecnologie avanzate di costruzione e creazione di forme.

Potere della narrazione arcaica, archetipica e potenza tecnologica dell’immagine: è questa duplicità a determinare il percorso di Cameron e, in un certo senso di una serie di autori che dominano la scena hollywoodiana contemporanea (alcuni nomi fra tutti: Zemeckis, Rodriguez, Del Toro e le sorelle Wachowski). Ma la visione de La via dell’acqua porta lo sguardo critico a comprendere ancora di più la specificità del percorso di Cameron rispetto alle tendenze estetico-tecnologiche del cinema contemporaneo, la sua radicale differenza. Unire la ricerca sulle nuove tecnologie dell’immagine al desiderio di immergersi nella potenza del mythos in tutte le sue forme può assumere forme ed equilibri diversi: soprattutto può essere lo spazio in cui il cinema, mostrandosi in tutta la sua potenza, riflette su se stesso.

Avatar (la saga) è un progetto-summa del cinema di Cameron, o meglio di questa idea di cinema che il regista americano ha sviluppato nel corso della sua carriera. Il passaggio dei quattro elementi che apre di fatto il film (essi compaiono in sequenza nella prima parte), ha come scopo la costruzione di un movimento ulteriore, quello del ritorno. Tutto ritorna nel film, in più di un senso. Ciò che ritorna anzitutto è il mondo del primo film: il pianeta Pandora, l’albero della vita, l’idea di connessione e unione tra tutte le forme viventi: la dimensione tecno-mistica che alimentava la narrazione del primo film attraversa la prima parte de La via dell’acqua. Tornano i corpi, sottoposti a più livelli di metamorfosi. I corpi-avatar degli umani che hanno deciso di rimanere su Pandora alla fine del primo film; il corpo di Sam Worthington (Jake Scully) ormai diventato Na’vi a tutti gli effetti, quello della sua compagna Zoë Saldana (Neytiri); i corpi degli attori che diventano nuovi personaggi filmici: come Sigurney Weaver che dà vita al personaggio di sua figlia Kiri, come Stephen Lang (Quaritch) e gli altri marine, morti nel primo film, i cui ricordi sono stati impiantati nei corpi di Na’vi che ora sono (e non sono) loro.

Sono tutti ritorni? O c’è qualcosa in più? In alcuni casi, la riapparizione dei corpi di sintesi, degli avatar, è in realtà un falso ritorno. Due personaggi lo rappresentano agli antipodi: quello di Quaritch, il generale dei marine i cui ricordi sono stati impiantati nel corpo-Avatar di un Na’vi, e quello di Kiri, la figlia misteriosa di Sigourney Weaver (“un miracolo”, la definisce Jake Scully nel film), in parte Na’vi, in parte umana. L’avatar di Quaritch è di fatto un ritorno dalla morte, mentre quello di Kiri è il miracolo di una nuova vita (impossibile), doppia potenza dell’immagine. Non un ritorno, ma una resurrezione e una creazione. Cameron va dunque ancora oltre, dal punto di vista teorico prima ancora che tecnologico. I personaggi del film sono al tempo stesso dei “ritornanti” e dei corpi mutanti: essi sono morti viventi (nello spazio del film) e sono corpi sottoposti a nuove metamorfosi. Sono fantasmi e zombie che occupano il nuovo territorio dell’animazione, quella della radicale ibridazione tra attore reale e attore di sintesi. Essi continuano ad esistere (e al tempo stesso non esistono); essi continuano a trasformarsi (senza mai mutare del tutto).

Ritorna il cinema del regista americano, le sue forme, le sue tracce, i suoi movimenti, i personaggi, i gesti. Ritornano le madri-guerriere (come Sarah Connor in Terminator 2, o Ripley in Aliens), le famiglie scelte e miste da difendere (come in True Lies), i corpi-cyborg come in Terminator, l’acqua che penetra negli spazi chiusi di una nave che affonda come in Titanic, il mondo sottomarino come altro mondo, pianeta sconosciuto (come in The Abyss, e nei tanti documentari realizzati o prodotti da Cameron). Ecco, il mondo marino e sottomarino. L’ultimo degli elementi presentati nel film è appunto l’acqua, che fa il suo ingresso nel momento in cui Jake e la sua famiglia decidono di lasciare il popolo degli alberi per trovare rifugio presso il popolo dell’acqua, che vive nell’altro emisfero di Pandora. Ma l’acqua da questo momento diventerà l’elemento dominante, la forma che dà senso al film, ne esplora la potenza, e si pone come analogos del cinema stesso: the way of the water.

L’acqua, elemento fluido, multiforme e cangiante, opaco e trasparente è da sempre presente nel cinema del regista americano sin dal primissimo Piranha paura, ed è una forma che ha attraversato, come già detto, tutta la sua filmografia. Acqua come forza primigenia, distruttiva, e al tempo stesso come spazio, luogo (il mare, l’oceano, le sue profondità) che apre a nuovi orizzonti di visibilità. Quello marino è un altro mondo, un pianeta dentro un pianeta, in gran parte sconosciuto e inesploratoL’acqua, come il cinema aggiungiamo noi, non ha un inizio e non ha una fine. È il refrain che ricorre più volte nel film, litania che va oltre il suo significato narrativo per diventare idea portante del cinema secondo Cameron. Le immagini sottomarine del film, comprese quelle dei titoli di coda sono l’espressione di una potenza dell’immagine, che in Cameron è sempre la potenza di una visione capace di riattivare la meraviglia e lo stupore degli occhi. “Io ti vedo”, il saluto dei Na’vi, assume dunque un’ulteriore connotazione rispetto al primo film. Vedere è soprattutto vedere di più, vedere oltre, o meglio, vedere attraverso l’acqua, attraverso uno schermo/spazio che permette al cinema di oltrepassare le frontiere della rappresentazione.

Avatar – La via dell’acqua si pone allora come una ulteriore tappa di un percorso che porta il regista ad esplorare più a fondo la potenza dell’immagine dall’interno del cinema classico hollywoodiano, da cui Cameron non si è mai allontanato, anzi. Una potenza che si traduce nel desiderio di oltrepassare i limiti fisici e materiali che orientano e determinano la posizione della macchina da presa, facendo del film lo spazio per recuperare un’immagine antichissima e modernissima al tempo stesso. Una via dell’acqua che si pone dunque come una via di un cinema sempre più dedito alla ricerca dei suoi confini, sempre più immerso in uno spazio ibrido che rilancia la potenza della classicità.

Avatar – La via dell’acqua. Regia: James Cameron; sceneggiatura: James Cameron, Rick Jaffa, Amanda Silver; fotografia: Russel Carpenter; montaggio: David Brenner, James Cameron, John Refoua, Stephenj E. Rivkin; musiche: Simon Franglen; interpreti: Sam Worthingtone, Zoe Saldana, Stephen Lang, Sigourney Weaver, Kate Winslet, Britain Dalton, Cliff Curtis; produzione: 20th Century Studios Lightstorm Entertainment; distribuzione: 20th Century Studios; origine: Stati Uniti; durata: 192′; anno: 2022.

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