«Avere un’idea è sempre una festa, soltanto che è raro avere idee, anzi è una cosa che non capita spesso» diceva Gilles Deleuze a proposito della natura creativa di ogni pensiero filosofico. E se la filosofia procede attraverso l’invenzione creativa di concetti, il cinema costruisce percetti, è continua creazione di immagini. Quando il cinema moderno allenta e interrompe l’azione narrativa, la sospende per dare accesso a falde di tempo entro le quali i personaggi sono privati dei nessi d’azione e aprono lo spazio del guardare e del vagare, diventano veggenti ed erranti, in altri termini abitano lo schermo, allora si crea un presente scisso continuamente in un passato che si raggruma e nella persistente possibilità di un futuro.
Perché ricordare il pensiero deleuziano sul cinema a proposito di un geniale spettacolo teatrale come Aucune Idée, che Christophe Marthaler (uno dei più significativi registi della scena contemporanea, Leone d’Oro per il Teatro alla Biennale di Venezia 2015) ha presentato a Napoli nel quadro del Campania Teatro Festival? Perché ci sembra lampante come questo lavoro sia costruito in modo cinematografico. Se il teatro ha a che fare con i corpi flagranti che apportano sulla scena una pregnanza che segna il tempo del qui e ora, quando, come in questo caso, quella scena e quei corpi paiono allontanarsi in una virtualità che incessantemente si ripete, come fosse un loop proiettato, allora l’azione dei corpi viene come risucchiata in un tempo congetturale e quei corpi si fanno simili all’evanescenza dell’idea, fluttuando come immagini sospese nel pensiero. Il senso del titolo dello spettacolo può essere colto leggendolo come il modo di dire in italiano “non ho idea”: piuttosto che l’assenza di una idea, la sua apertura alla possibilità. “Non avere idea” diventa allora un porre l’idea su una soglia attraverso cui essa può passare, può manifestarsi e concretarsi in un susseguirsi di immagini possibili che si succedono in una ripetizione che però è sempre una sorpresa.
Le idee quindi prendono campo e forma entrando e uscendo da quelle soglie. È proprio in questo modo che lo spazio scenico è qui strutturato da Marthaler: una sequenza di porte viste dall’esterno, come sul pianerottolo di un caseggiato, disposte secondo una angolatura obliqua. Le porte sono cinque, due su una parete, due su un’altra e le pareti sono separate da uno spazio nero e accanto alla seconda parete due cassette della posta. Sulla sinistra della scena c’è una parete ad angolo, sul lato più stretto la quinta porta, che è bianca, su quello più lungo una serie di bianchi riquadri e un calorifero, in alto un quadro elettrico e questo spazio angolare ha un pavimento con un disegno a zig zag, come a isolarne il perimetro. L’impressione non è tanto quella di una scenografia, ma piuttosto di un set cinematografico. Infatti lo spazio per tutta la durata dello spettacolo si dinamizza, si fa cinetico, con continue entrate e uscite dalle porte di due strambe figure. Dal lato della parete a riquadri sbuca un uomo (il musicista-cantante Martin Zeller) portando con sé prima un violoncello, poi una viola da gamba. Come una colonna sonora a contrappunto l’uomo suona brani di Bach, e si esibisce in song rinascimentali o in una canzone popolare irlandese. L’altra teoria di porte lascia entrare ed uscire una figura allampanata con un impeccabile parrucchino, un misto tra Danny Kaye e Groucho Marx (Graham F. Valentine, attore-cantante prediletto dal regista svizzero). Infatti Aucune idée si rivela essere una sorta di slapstick teatrale, adottandone l’inverosimiglianza paradossale ma soprattutto il gioco tra gap, lapsus e gags e rilanciando un dinamismo che alterna sequenze parossistiche a momenti di assoluto vuoto. Una sfilata di atti mancati e di lacune gestuali che si susseguono e si ripetono sullo schermo livido dello spazio domestico, il quale scivola sempre di più verso una terra di nessuno.
Marthaler nelle sue messinscene predilige i non-luoghi, gli spazi di transito, gli ambienti senza centro (sale d’attesa, aeroporti, stanze d’albergo), pervasi da una bizzarria e una eccentricità che muovono a qualcosa che si può chiamare “brivido del riso”, un divertimento e un umorismo paradossalmente agghiaccianti, come avviene in Kafka o in certi film di Polanski. Incredibilmente qui i dialoghi, che solo superficialmente potrebbero essere apparentati a quelli del Teatro dell’Assurdo, costruiscono una atmosfera da thriller filosofico, dipanano una suspence del pensiero, del suo muoversi intorno, appunto, alle lacune delle idee. L’entrata in scena di Valentine è in questo senso eclatante: con un solo “gap” ripetuto (che si trasforma in gag) cerca di aprire con un mazzo di chiavi la cassetta della posta ma metodicamente le chiavi gli cadono di mano. Questo atto mancato si ripete molte volte, con una esattezza puntuale e implacabile, e a poco a poco (come nei film di Buster Keaton) l’immagine suscita il riso. Ma se ridiamo del gap che diventa gag lo facciamo assimilando l’impassibilità dell’attore: il nostro ridere gira a vuoto e “non abbiamo idea” di ciò di cui ridiamo. Questo spettacolo ci mette di fronte dunque alla nostra stessa intrinseca inoperosità quando entriamo in rapporto con un’opera come forma-di-vita e, in relazione ad essa, con quella che Agamben chiama “circolarità della condizione artistica”, a partire dalle pratiche delle avanguardie storiche:
Il criterio di verità dell’arte si è spostato a tal punto nella mente e, molto spesso, nel corpo stesso dell’artista, nella sua fisicità, che questi non ha bisogno di esibire un’opera se non come cenere o documento della propria prassi vitale. L’opera è vita e la vita non è che opera: ma, in questa coincidenza, invece di trasformarsi e cadere insieme, esse continuano a inseguirsi a vicenda in una fuga senza fine (Agamben 2014, p. 312).
Marthaler definisce il divario come tema portante dello spettacolo: come misurare la distanza, come colmare il vuoto tra l’agire e il contemplare quello stesso agire, tra ciò che ci si aspetta accada e il totalmente inaspettato? Come arginare la disgregazione che ogni volta è in agguato a sabotare l’azione scenica? Forse rendendo ineffettuale e inoperoso lo stesso agire e lo stesso parlare in scena, lasciandoli scivolare via fino a disgregarne il piano linguistico, riducendoli in immagini di cui non si ha alcuna idea, se non del loro manifestarsi quando si ripetono. Ad esempio nell’alternarsi di lingue diverse, nel canticchiare filastrocche, nello sciorinare nonsense musicali, nel solfeggiare canti irlandesi, nel lasciare scaturire da un vecchio registratore il sublime preludio del Tristano e Isotta, nel numerare e compitare una serie di Bibbie (dai titoli esilaranti come “Bibbia dei cammelli” o “dei pesci in piedi” o “dei calzoni”) che la cassetta della posta “vomita” a ripetizione, insieme a pacchi di volantini pubblicitari, nell’ostentare con impassibilità il ritmo rimato e i giochi verbali dadaisti di Kurt Schwitters (citando il suo Ribble Bobble Pimlico), evocando i cataloghi di George Perec o le note barocche di Marin Marais. Insomma sciorinando un profluvio di “attrazioni” a ripetizione, un affastellarsi quasi circense di numeri sospesi nella vacuità di quello spazio domestico che si fa sempre più inquieto e “animato” come da una forza cinetica sua propria.
La pirotecnica agilità vocale e insieme il dinoccolato e sbilenco muoversi di Valentine, così come l’inappuntabile e imperturbabile eleganza di Zeller nei suoi virtuosismi al violoncello e alla viola, aleggiano come “spiriti burloni” nell’aria asettica del pianerottolo. Ed è così che quell’entrare e uscire dalle porte si fa “macchina da sorpresa”: sembra di tornare alle comiche delle origini, al dinamismo già filmico dei vaudeville, di rivedere l’eleganza del “gioco delle porte” nei film di Lubitsch. Un altro evento si ripete significativamente in scena: un black out, la corrente si interrompe, e si interpone, nel bel mezzo di una azione insignificante. Il gioco dello spettacolo è anche nel vedere e nell’intravedere (come la sagoma di un misterioso “terzo uomo” che bussa all’unica porta a vetri della scena nell’immagine finale), nell’evento inaspettato che alligna nell’ombra. Così come l’imprevisto viene assimilato a uno scambio di battute che rimbalzano dal fuori campo alla scena. Valentine cerca di scassinare una delle porte e si dichiara educatamente come ladro alla voce che giunge da dietro la porta. Il dialogo tra campo e fuoricampo è degno di un film dei Marx Brothers.
“Che cosa la porta qui?” “Vorrei svaligiare casa sua. Ad essere sincero, volevo derubarla con professionalità, entrando dal balcone. Ma ero troppo stanco”. “Non ho un balcone”, “ah, non ha un balcone. Quindi non avrebbe funzionato comunque”. “In casa ho solo trentacinque euro”, “non sono tanti per tutte le scale che ha dovuto salire”. “Se avessi saputo che sarebbe venuto, mi sarei trasferito al piano di sotto”.
Marthaler viene da studi musicali e nel suo teatro intesse sempre una cadenza che riassorbe il tempo in una sorta di orchestrazione “verbovisiva”. In tal senso le radici del suo lavoro possono ritrovarsi in quella che Wagner preconizzava come «opera d’arte totale», sia quando allestisce grandi spettacoli lirici, sia in questa sorta di “miniatura” che è Aucune Idée. C’è sempre una costruzione ad ampie sequenze distese nel tempo scenico, in tal senso si può pensare a un suo procedere cinematograficamente dinamico nel gestire la dilatazione e la dislocazione spaziale dei tempi, del loro montaggio. Ne risulta un respiro scenico a sistole e diastole, non a caso verso il finale dello spettacolo si compitano in diverse lingue i versi wagneriani del Tristano e Isotta: «È il soffio dei tuoi sospiri che gonfia le mie vele?». Da tutto ciò misteriosamente scaturisce una poesia che è del soffio disperso della lacuna, dell’alito lieve di un atto mancato, aperto a ciò che di sublime c’è nell’opera: la tensione verso un suo compiersi solo nell’atto del naufragare.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza Editore, Vicenza 2014.
G. Ripa di Meana, Lacune, Nottetempo, Roma 2012.
Aucune Idée. Ideazione: Christoph Marthaler; drammaturgia: Malte Ubenauf; scenografia: Duri Bischoff; musiche: Martin Zeller; costumi: Sara Kittelmann; luci: Jean Baptiste Boutte; suono: Charlotte Constant; produzione: Anouk Luthier.
* L’immagine di copertina e quella presente all’interno dell’articolo sono foto di scena di Triennale Milano Teatro.