Due corpi divisi da qualcosa di ignoto. Due corpi attratti da qualcosa di ignoto.
Gesti, parole, sguardi che misurano incessantemente
la distanza che li separa e allo stesso tempo la potenza del segreto che li avvicina.
Dovremo cercare di misurare tutto questo con la macchina da presa.
Luc Dardenne
In questi giorni strani, il pensiero va all’immagine di due mani che si sfiorano, e poi subito dopo, per pudore, si allontanano. Sono le mani di due giovani, Marie e Gèrard, protagonisti di uno dei film più belli di Robert Bresson, Au hasard Balthazar. In quelle due mani c’è non solo il senso di tutto il cinema di Bresson, c’è forse il senso di ciò che fin qua abbiamo definito umano e che oggi sembra vacillare sotto l’attacco di un virus di cui sappiamo ancora troppo poco.
Umana è la distanza fragile che separa le due mani, profana perché quella distanza sta lì solamente per essere violata. Desiderare significa sapere di poter rompere in ogni momento la soglia invisibile che separa il mio corpo da quello del mio prossimo. Il cinema di Robert Bresson (come quello dei fratelli Dardenne e molti altri) è la messa in immagine di questo desiderio che dalle mani si trasferisce allo sguardo, alla distanza che la macchina da presa sa giustamente calcolare fra sé e i corpi che filma, approssimandosi e allontanandosi alternativamente.
La distanza dai nostri simili che oggi siamo tenuti a tenere risponde a un tentativo estremo, giunto forse oltre tempo massimo, di sacralizzare il valore della vita umana, separandola dal commercio con il mondo. E in effetti, lo leggiamo nel Vangelo secondo Giovanni, anche Gesù – spirito divenuto carne – subito dopo la sua resurrezione si rivolge a Maria Maddalena (la donna che i Vangeli apocrifi indicano come la sua amante) con una invocazione celebre: “Noli me tangere”. L’esortazione a non toccare il suo corpo è l’affermazione più forte di non fare più parte del mondo, di aver fatto ritorno alla casa del Padre, al regno dei cieli. Oggi quella espressione risuona come un monito per l’intero genere umano: di stare su una soglia oltre la quale nulla sarà come prima. Ma di che sostanza saremo fatti, se non di carne?
Che ne è dunque dell’uomo quando gli è imposto – per una condizione che dicono di necessità – di rinunciare al suo contatto con il mondo? Un contatto che avviene attraverso i sensi e produce pensiero. È una delle affermazioni che più ricorsivamente torna nei lavori di Jean-Luc Godard dalle Histoire(s) du cinéma a Livre d’image: l’uomo pensa con le mani, e il mestiere del regista/montatore lo conferma. Se questo è vero, ciò di cui ne va in questi giorni, è dunque la capacità stessa di pensare, che da sempre ha fatto dell’uomo ciò che è. Privato delle sue mani, l’uomo è privato del suo pensiero: ne abbiamo già più di qualche conferma.
Au hasard Bathazard, il cinema di Bresson, forse addirittura il cinema per intero sono là per ricordarci che tutte le soglie, almeno fin quando siamo umani (fin quando cioè siamo in grado di desiderare), esistono per essere abbattute, superate, attraversate in avanti e indietro. È il desiderio che ci rimane: tornare presto a questa consapevolezza.
Au hasard Balthazar. Regia: Robert Bresson; sceneggiatura: Robert Bresson; fotografia: Ghislain Cloquet; montaggio: Raymond Lamy; musiche: Jean Wiener; interpreti: Anne Wiazemsky, François Lafarge; produzione: Argos Film; origine: Francia, Svezia; durata: 95′; anno: 1966.