Di notte, nella terra di nessuno che separa e insieme unisce USA e Messico, è il tempo in cui gli uomini, rivelati dai visori termici, diventano fantasmi, figurette bianche che si agitano nell’oscurità, spettri disperati in fuga senza scampo. Senza scampo perché a tradirne la presenza è il calore, captato dagli strumenti, proveniente dai loro corpi, ossia è il loro stesso essere vivi. Come se invisibili potessero essere soltanto i morti, una volta freddi, o comunque le cose inanimate.
Altri uomini in divisa militare, armi in pugno, scesi da uccelli volanti (gli elicotteri), danno loro la caccia. Gli sbattono in faccia fasci accecanti di luce, che squarciano la notte senza attenuarne l’oscurità, anzi accentuandola. La caccia somiglia a un video-gioco, si decide sullo schermo dei computer, ma il suo esito sembra scontato – almeno finché non si verifica l’imprevisto: uno dei fantasmi fuggitivi, una volta bloccato, si inginocchia e alza le mani, ma non lo fa per obbedire a un ordine – lo fa per pregare, e pregando un dio misterioso, un dio Altro, si fa saltare in aria, assieme ai soldati che lo hanno circondato. Poi altri attentati, altre esplosioni, morti e feriti, in un grande magazzino, affollato di merci e di clienti.
Questo l’incipit folgorante di Soldado, che si può considerare quasi un sequel del precedente Sicario (2015) di Denis Villeneuve e pone, alla fine, le premesse per un terzo film, conclusivo della serie. Il regista è Stefano Sollima, attratto (a suo dire) dal fatto che la sceneggiatura, ancora di Taylor Sheridan, riguarda il mondo delle organizzazioni criminali, e questo rappresenta da sempre l’oggetto principale d’interesse da parte del regista di Gomorra e Suburra.
Bisogna dire che, rispetto a quella di Sicario, la sceneggiatura di Soldado ci pare molto più schematica. Non c’è più nessuna Kate, idealista e ligia alle regole, come contraltare ai “disinvolti” Matt (Josh Brolin) e Alejandro (Benicio del Toro): adesso ci sono solo “disinvolti”. Al posto di Kate, Isabel, una ragazzina, figlia del boss Reyes, che sembra portare nel suo DNA le stigmate di violenza e prevaricazione. Le traversie che si trova, suo malgrado, a dover attraversare, il rapimento, la marcia nel deserto, riescono a cambiarla? Riescono a cambiare Matt? Riescono a cambiare Alejandro? Forse in parte, ma non è sicuro, anche perché occorreva lasciare aperte diverse possibilità per un seguito.
Tutto, qui, è molto secco e diretto, come secca e diretta è la regia di Sollima. Ci si uccide nell’indifferenza, si comunica attraverso il fuoco e il rumore dei mitra, negli agguati lungo strade sterrate, pianure arse dal sole, in cui la polvere, accecando, fa le veci della notte.
In Suburra, il nodo era nell’intreccio tra politica e criminalità organizzata, tra il sottobosco romano politicante e quella che è stata giustamente definita “mafia Capitale”; in Soldado, al contrario, le alte sfere del governo a Washington combattono la mafia messicana, che dal canto suo si ricicla affiancando al traffico di droga il traffico di clandestini attraverso il confine, rivelatosi a quanto pare altrettanto remunerativo. Però tra i disperati che tentano il passaggio, attratti dal miraggio d’una vita migliore, si infiltrano terroristi islamici, e questo non può essere tollerato. Ecco che per combattere il fenomeno, allora, i politici assumono i metodi stessi delle organizzazioni criminali. Di Alejandro si sfrutta il desiderio di vendetta (il boss Reyes gli ha ucciso la figlia), oltre alla costituzionale propensione a infischiarsene delle regole: tanto più in un caso come questo, dove non ci sono regole. Matt, se occorre, uccide senza battere ciglio. Per far parlare un complice dei terroristi, catturato, non lo tortura, non gli torce un capello; gli mette davanti uno schermo televisivo sul quale è inquadrata la sua casa, dove abita la sua famiglia. Se l’uomo non parla, Matt ordinerà la distruzione della casa (come poi avviene) tramite un bombardamento aereo.
Qualche deviazione tuttavia, qualche detour lungo le autostrade per l’inferno, resta possibile. Quando organizza la loro fuga, Alejandro dice a Isabel “Se ti chiedono qualcosa, dì che mi hai pagato perché finga di essere tuo padre”. Isabel gli domanda “Perché non dire semplicemente che sei mio padre?” e Alejandro risponde “Perché le mie bugie sono diverse dalle tue”.
Da un certo punto in poi, il personaggio esita ad abbandonarsi a quell’oscura mozione degli affetti che malgrado tutto segna il confine della sua apparente spietatezza. Potrebbe essere una sorta di padre vicario, un padre che conosce il linguaggio dei sordi, l’alfabeto muto e affettuoso dei gesti. Esita, o meglio va e viene, da una parte all’altra, proprio come se andasse e venisse de l’autre côté, tra il Messico e il Texas, appartenente a due mondi diversi e contrapposti, molto più diviso e lacerato, malgrado l’aspetto tetragono, anche rispetto al giovane aspirante sicario che gli spara, vorrebbe ucciderlo, ma riesce solo a ferirlo.
Alejandro sembra morto, sconvolgendo tutti i codici hollywoodiani, ma poi “risorge”: strana falla di sceneggiatura, come se la morte, in fondo, fosse un territorio da cui si ritorna, per quanto insanguinati. Tutto il film, del resto, è pervaso da questa ossessione del confine, del passaggio, della barriera che divide e al tempo stesso misteriosamente unisce. Viene quasi da pensare che il Messico, la terra oscura del crimine e del caos, rappresenti nell’immaginario cinematografico (ma forse non solo cinematografico) una sorta di territorio libero dell’es per i “civilizzati” USA. Le Ombre, nonostante i visori termici, trasmigrano. Altrettanto vale, purtroppo, per le pratiche ciniche del potere. Sembra inevitabile che si verifichi sempre una sorta di inquietante osmosi tra le metodologie del terrore e quelle che dovrebbero combatterlo.