di ROBERTO ANDÒ
La deriva romanzesca dei personaggi sulla scena politica contemporanea.
Contagiati forse dai monotoni, gli istrioni immaginarono che ogni uomo è due uomini
e che il vero è l’altro, quello che sta in cielo.
Immaginarono anche che i nostri atti generino un riflesso invertito,
di modo che se noi vegliamo, l’altro dorme,
se fornichiamo, l’altro è casto,
se rubiamo, l’altro dà del suo.
Jorge Luis Borges, I teologi.

Gian Maria Volonté in Il caso Moro (Ferrara, 1986).
La nostra, se si vuole, è tipicamente l’epoca dell’uomo che ha perduto l’ombra. La famosa frase, ‘egli ha smarrito la sua ombra’, è una metafora che sta a indicare che abbiamo perso l’opacità, e in fondo l’essere stesso, lo spessore dell’essere, la sua profondità.
Se è vero quello che scriveva Baudrillard, oggi la domanda cruciale che ci si deve porre è: Cosa vuol dire essere attore in un’epoca che ha smarrito la propria ombra? E cosa accade agli attori quando intorno a loro viene uccisa, insieme alla realtà, anche l’illusione costituita da apparenze e fantasie che dovrebbero fornire all’essere umano una proiezione diversa dell’esistente, una sua alternativa?
Da quando insegno regia del documentario al Centro Sperimentale, mi è sempre più chiaro cosa intendesse Baudrillard quando parlava del delitto perfetto, di quella scomparsa della realtà che corrisponde all’impasto micidiale di vero e di falso in cui ci troviamo immersi. Per quanto possa apparire paradossale, se c’è un luogo paradigmatico in cui verificare quella scomparsa profetizzata dal filosofo francese è proprio il documentario, e una delle condizioni più evidenti di questa verifica è l’indistinguibilità tra chi è attore e chi non lo è, un’indistinguibilità che sembra segnare profondamente il frangente storico in cui ci troviamo.
Se infatti la fiction contrabbanda il valore del controllo come maestria, e con esso l’onnipotenza napoleonica del regista, di cui è esempio Kubrick, la maestria del documentarista sembra invece essere affidata al saper cogliere impreparati la realtà, o a farsi cogliere impreparati dalla realtà. Questa virtù del documentarista coincide con l’unico realismo possibile, quello secondo il quale la realtà non è mai ovvia, ma in statu nascendi, mai del tutto prevedibile o domabile, ma sottilmente disposta a lasciarsi riscrivere da chi è in grado di accoglierne il fluire.
Uno scrittore come Emmanuel Carrère ha scritto che per quanto i critici tendano a dire che i confini tra documentario e fiction sono ormai vaghi, ambigui e imprecisabili, in realtà un confine esiste ed è chiarissimo: “In un film di fiction i personaggi sono interpretati da attori. In un documentario i personaggi che si vedono sono veri”. In realtà, come si evince più avanti dalle parole dello stesso Carrère, vi è piuttosto un nuovo paradosso dell’attore, che appartiene ad ogni documentario ma forse anche alle pieghe romanzesche della realtà contemporanea. Nel romanzesco si annulla infatti il presunto discrimine tra l’attore e la persona vera, tra il volto e la maschera, e dunque ogni possibile distinzione tra l’uno e l’altro.
Che cosa sia il romanzesco lo ha spiegato bene Roland Barthes, quando ha scritto: “Mi piace il romanzesco, ma so che il romanzo è morto”. Cercando di definirne la natura e i caratteri, Barthes ha scritto:
Il romanzesco è un modo di discorso che non è strutturato secondo una storia: un modo di osservazione, d’investimento, d’interesse alla realtà quotidiana, alle persone; a tutto quello che succede nella vita. […] Ogni biografia è romanzesca, è un romanzo che non osa dire il proprio nome (La grana della voce, p. 218).
Prendiamo un film come Close up (1990) di Abbas Kiarostami. Il film racconta di un giovane disoccupato che riesce a introdursi presso una famiglia benestante, facendosi passare per il noto regista Moshen Makhmalbaf, e millantando un progetto cinematografico per un film di cui quella famiglia dovrà essere protagonista. Quando l’inganno viene scoperto, il giovane finisce in tribunale. Alla fine del processo incontra il vero Makhmalbaf con cui si reca dai truffati a chiedere perdono.
A poche settimane di distanza dagli avvenimenti, Kiarostami ricostruì e filmò la vicenda con i suoi protagonisti veri. Nel film, il processo per truffa diventa un’arringa per il diritto alla finzione e il riconoscimento del bisogno di essere un altro. Il risultato è una vertiginosa “riflessione sul potere del cinema”, come l’ha definito Nanni Moretti nel suo cortometraggio Il giorno della prima di Close Up (1996). Nel film il regista gioca a fare del documentario con la finzione e della finzione con il documentario. A parte le scene del processo, che sono reali (ma Kiarostami era presente con una sua telecamera per riprendere l’udienza, e tutti ne erano consapevoli), il resto è stato ricostruito con l’aiuto degli stessi protagonisti del fatto, che dunque interpretano sé stessi.
In poche parole, Sabzian, l’impostore, recita nel ruolo di sé stesso che recita nel ruolo di Makhmalbaf: come credergli, allora, quando afferma: “in questo momento non sto recitando?”. Oltre a lui, però, anche gli altri attori sono contemporaneamente “veri” (interpretano sé stessi, ripropongono ciò che è successo realmente) e “fasulli” (si tratta comunque di una messa in scena): tutti recitano una parte, anche quando in realtà non lo fanno, come in una sorta di “falso documentario”. Close-up è un film importante perché mette in discussione attraverso il labirinto dei diversi livelli della realtà, la nozione di persona e quella di personaggio, giocando sull’impossibilità di distinguere il momento in cui la persona diviene personaggio, e arrivando a minare il fragile sostrato su cui regge lo statuto diverso dell’attore e della persona vera.
Uno dei capisaldi o delle certezze del documentario è infatti che venga raccontata una storia i cui protagonisti restino dall’inizio alla fine persone, uomini o donne mostrati nella loro continuità psicologica di individui veri che ai nostri occhi non potranno mai risultare personaggi. Ma essere se stessi diventando ogni volta diversi non è forse la scommessa vertiginosa di ogni grande attore? Maschera o volto? […]. Fellini diceva che per un suo film, che un attore sapesse o non sapesse recitare, gli interessava molto poco: un film è una città immaginaria i cui cittadini esistono già e sono sparsi per il mondo, bisogna solo andare a cercarli.
D’altronde, Fellini amava soprattutto le comparse. Un termine significativo: comparsa, qualcuno che compare, una presenza che già c’è e deve solo manifestarsi. […] “A me non importa quasi niente che si sappia recitare, anzi a volte mi da fastidio perché saper recitare vuol dire avere una consapevolezza, una presunzione, sovrapporsi, controllare, portare delle cose che non mi servono.” La comparsa è infatti l’elemento che media il romanzesco, e lo fa agendo attraverso il corpo, soprattutto attraverso il volto. Il romanzesco di Fellini coincide totalmente con i volti e i corpi delle sue comparse, con la loro fantasmagorica stranezza. La comparsa è infatti il fugace, e il fugace è sempre impresso nel volto, nel corpo. Fellini attirava i tipi irregolari, “strani”, seduceva persone attratte dal suo immaginario, fantasmi con cui nutrire il proprio romanzesco. Il cantiere del romanzesco felliniano è la fugacità di Roma, una città cimitero, o forse, come amava definirla il grande regista, un minestrone, comunque una città che nel tempo ha assunto, accanto alla sua dimensione reale, un carattere ipotetico.
“Se l’attore fa il personaggio, chi fa l’attore?” – si chiedeva Carmelo Bene. Concepito come una postilla all’amato-odiato Pirandello, c’è un saggio di Leonardo Sciascia che s’intitola Il volto sulla maschera che sembra voler rispondere a questa domanda cruciale. […] Parlando del Fu Mattia Pascal di L’Herbier, e del suo interprete Ivan Mojouskine, Sciascia parla di quel tempo sottratto al tempo che è il cinema, un luogo di predestinazioni, di fantasmi, di assenze che si fanno presenze, di volti che coincidono o non coincidono con la maschera. […] Nel suo saggio, lo scrittore siciliano sembra soprattutto voler fare i conti con la maschera come tratto di discrezione e diderottiana insensibilità, contrapposta all’immagine più sfuggente dell’umano, quella del volto, il luogo in cui si prefigura per ogni uomo o donna il destino della propria esistenza, la traccia in cui si raccolgono e si manifestano, nostro malgrado, contemporaneamente, il nostro presente, il nostro passato, e il nostro futuro.
La riflessione di Sciascia parte dunque dall’attore. E, attraverso di esso, traccia un rapporto problematico con l’identità, e con il tempo. Il nucleo teorico della riflessione di Sciascia sull’attore si incrocia con l’idea del ritratto fotografico come entelechia (En: dentro, Telos: scopo). Nel ritratto l’entelechia realizza un’attendibilità che restituisce intero il senso di una vita. L’idea del ritratto come entelechia si manifesta a Sciascia in margine a una citazione del Libro degli amici di Hofmannsthal, a commento della sequenza di foto che Pedriali dedica a Pasolini. Scrive Sciascia: “Entelechia. E subito pensai: un uomo che muore tragicamente è, in ogni punto della sua vita, un uomo che morirà tragicamente”. È un pensiero in cui si coglie anche un rimando a Valéry, alla sua idea che il ritratto consegnando il soggetto in mani di altri, lo consegni dunque alla morte, a Dio, all’ignoto se stesso che ognuno di noi, senza saperlo, ospita.
L’entelechia di Sciascia è la stessa che si trova in una scheggia di pensiero di Pasolini: “Il montaggio è come la morte; finché un uomo non muore non si sa bene chi è stato”. La messa in forma sciasciana, filosoficamente, è infatti più vicina al cinema del reale, al documentario di creazione. Come il documentarista – “non mi considero un narratore puro, sono un narratore piuttosto spurio, che prende il suo bene dove lo trova, nella realtà e nei documenti” –, l’investigatore dei romanzi di Sciascia ingaggia una lotta col reale (contro quella che Sciascia chiama l’invisibilità dell’evidenza), e non pretende di possederne sin dall’inizio il finale (come in Pirandello tutto si sfrange fino a scomporsi in mille schegge). Lo fa in virtù di “quella forza che ha la realtà di rendere possibili e lecite le cose che astrattamente non sono possibili e non sono lecite”.
Anche l’attore per Sciascia è un tramite in cui si completano due facce diverse, la realtà e l’ipotesi. L’attore sciasciano è a suo modo anch’egli uno che fa romanzo, e in quanto tale è dunque in grado di far affiorare ciò che è possibile ma non si vede, per esempio ricongiungendosi con un fratello gemello lontano, e ancora ignoto. L’attore vagheggiato da Sciascia, esemplificato e incarnato dal grande Moujouskine, è infatti quello che sa mettere il proprio volto sulla maschera, una prodezza borgesiana, una mossa che fa sì che per “il tramite della sua immagine, per la mediazione del suo corpo, del suo volto, delle sue espressioni, l’attore sia in grado di realizzare l’incontro predestinato e necessario tra due personaggi apparentemente lontani e diversi ma segretamente e sottilmente identici, e che ci faccia scoprire di essere, come i due teologi nemici di Borges, la stessa persona”.
Il volto sulla maschera. Ci sono attori a cui questa prodezza riesce benissimo, per esempio Gian Maria Volontè e Toni Servillo. Per un curioso destino sono stato molto amico di Volontè e sono molto amico di Servillo. Con l’uno, Volontè, ho lavorato quando facevo l’assistente di Francesco Rosi durante le riprese di Cristo si è fermato a Eboli (1979) e con Toni Servillo ho fatto i miei ultimi due film, Viva la libertà (2013) e Le Confessioni (2016). Per un imperscrutabile disegno, Volontè avrebbe poi interpretato due suoi personaggi, in Porte Aperte (Amelio, 1990) e in Una storia semplice (Greco, 1991) modellandoli sull’immagine di Leonardo Sciascia, sui suoi silenzi, sulla sua smorfia di ragionato scetticismo. Amando la sua letteratura, e la sfida che vi è contenuta, Gian Maria avrebbe concepito una sorta di grandioso omaggio allo scrittore siciliano restituendocene, in un ritratto indelebile, anche la musica interiore.
Con Toni invece, durante la lavorazione di Viva la libertà, ci dicevamo spesso che nella storia dei due gemelli – uno politico, l’altro filosofo, uno razionale e depresso, l’altro euforico e pazzo, uno in fuga, l’altro che lo imita e ne prende il posto di segretario del partito – in realtà si nascondeva un film sull’attore, sulle due parti di cui è fatto ogni attore, una parte euforica e una depressa, una parte nota e una ignota, una parte che vuole fingere e una che si rifiuta di farlo, e che lo era tanto più in quanto quel film era incentrato sulla politica, su quello che racconta la politica di oggi, l’agonia del potere e la vita che sfugge a se stessa.
Al contrario de Il Principe di Machiavelli che mai avrebbe abbandonato il potere, se non a causa della morte, il politico di oggi, come ha detto Baudrillard, vive nell’indecisione angosciosa e martellante del come esercitare quel potere e insieme di come disfarsene. Nel lasso di cinquecento anni, la politica si è tramutata nell’ambito più interessante per narrare la vita che sfugge a se stessa, per raccontare la volatilità e il desiderio di sparire dissimulati nel potente. Potere e fragilità sono diventati sinonimi: il potente di oggi sa di essere malato, sa dunque di dovere accudire le proprie paralisi, l’inadeguatezza strutturale dei meccanismi decisionali, la fragilità che il ruolo che indossa di per sé rappresenta. La dichiarazione di de Gaulle “il potere è impotenza” suona oggi come un manifesto. In questo senso, forse, Aldo Moro, con quel volto scettico che tanto ha sollecitato la riflessione dei grandi scrittori italiani, da Pasolini a Sciascia a Manganelli, è uno dei più grandi attori tragici della storia italiana, e lo è sia quando recita in proprio, sulla scena della sua tragedia di uomo politico, sia quando è il fantasma di quella scena, nei film in cui è interpretato da altri, da Volontè per esempio, o da Roberto Herlitzka, o da Fabrizio Gifuni.
Infatti, da quando i leader sono entrati in quella che si può definire una sfocatura epocale, o una lunga dissolvenza, sono diventati anch’essi personaggi in cerca d’autore, e dunque anche attori. Come ha scritto Marco Belpoliti “la storia italiana dell’ultimo cinquantennio appare talmente romanzesca di suo che i tentativi di narrarla o escono dal romanzesco, per via saggistica e giornalistica, oppure lasciano il passo a un racconto che o è pazzerello o non è, come scrive Pasolini in Petrolio”.
Sappiamo da Aristotele che la storiografia è preposta a raccontare fatti realmente accaduti, e la narrativa a descrivere i fatti che si sarebbero potuti verificare. Molto spesso però si contaminano i due generi: i romanzieri cercano di invadere il campo degli storici, e viceversa. Il ricorso del romanzo alla non-fiction non dipende da una fame di realtà più intensa che nel passato, ma è il sintomo di ciò che manca alla realtà. Ciò che avviene è quindi una vera e propria commistione di generi. L’attuale romanzo cerca una verità più radicale e profonda di quella che ci fornisce la cronaca. Possiamo dire che ci sia anche nell’idea dell’attore questa indeterminatezza, questo sconfinare di campo, questo enunciare romanzesco.
Lo sfumare vertiginoso dell’attore verso il non attore e del non-attore verso l’attore, l’odierno pendolare tra la persona e il personaggio appartengono al carattere romanzesco della realtà che ci circonda, lo stesso di cui anni fa parlavano in modi diversi Pasolini, Sciascia e Barthes. […] Cos’è il mestiere dell’attore se non questo prodigio che rende invisibile la costruzione che sta dietro la mossa attraverso cui il volto aderisce alla maschera?
Sia Il trono vuoto, sia il film che ne ho tratto, Viva la libertà, si pongono una domanda sottesa a ogni potere: qual è il legame tra governare e recitare? Assumere un ruolo di comando corrisponde a una recita, a quel miracolo che sempre deve compiere una recita, creando effetti che siano insieme illusori e reali? E, svariando questo tema, entrambi affrontano quello del volto e della maschera. Nel film ciò accade attraverso l’immagine caleidoscopica che Servillo presta ai due gemelli. È da questo gioco della maschera e del volto che nasce l’irriconoscibilità del personaggio che nel finale si trova di fronte il fido Bottini-Mastandrea, in quella scena clou in cui egli cerca di decifrare attraverso lo spiraglio della porta se colui che gli sta davanti sia il vecchio segretario che è ritornato e imita il pazzo, o il falso segretario, il pazzo, che imita il vero. L’identità sfigurata della politica in Italia impone il dubbio che la politica sia comunque destinata tragicamente alla finzione.
Mentre la letteratura cerca di regolare il proprio sguardo sulla realtà facendo i conti con l’assenza di mondo, la politica diviene essa stessa assenza di mondo, paradigma dell’inesperienza, luogo che come tutta la realtà – forse anche di più – appare sottoposto a un destino di fluttuazione e indeterminazione, dunque di finzione. Un filosofo che conosce bene la politica, Massimo Cacciari, ha scritto a commento de Il trono vuoto che:
Il potere è maschera nella sua essenza; chi lo esercita nasconde in sè sempre un estraneo. E questo estraneo appartiene alla sua natura esattamente quanto un fratello gemello. Il potere è assolutamente impotente a fuggire da tale rapporto, per quanto lo tenti. Così, alla fine, pur attraverso ogni sdoppiamento, la differenza risulta inessenziale, e occorre riconoscere l’identità del potere in quanto finzione.
È vero, la politica è oggi il luogo in cui si sperimenta meglio la pulsione di essere un altro. Se la politica è oggi più che mai duplice o doppia, se il mondo ha smarrito la propria ombra, se il reale è la nostra sola utopia, se vivere significa cercare di essere un altro, chi è oggi l’attore? E chi il personaggio?
Il delitto perfetto ordito dalla labirintica traiettoria del teatro novecentesco, la sua macchinazione ai danni dell’idea di rappresentazione, le sue infinite, ormai antiquarie, discussioni sull’immedesimazione e sullo straniamento, lo sconfinamento progressivo dalla sua dimensione tecnico-linguistica al piano enigmatico e spettrale dell’esperienza, una certa idea di regia, hanno contribuito a far sparire definitivamente dalla scena ciò che un tempo si identificava col termine attore, dando a chi l’ha sostituito, alla figura che oggi occupa la scena, dei connotati ancora più sfuggenti. In questo nuovo paesaggio, ai grandi attori – come Toni Servillo – non resta, al pari degli Emigrati di Sebald, che abitare la terra della non appartenenza.
L’attore deve sempre ricordarsi che la vita è altrove. Non è nella tecnica, non è nel timbro trattato tecnicamente, non è nel diaframma, o nel controllo di certi elementi facciali, la vita è nelle pieghe di tutto questo, nel punto subdolo in cui ogni esistenza è costruzione e deriva. […] il mestiere dell’attore ha a che fare con la costruzione ma anche con la deriva. In questo senso nei grandi attori con cui ho lavorato distinguerei due tipologie, quelli che, per dirla con Artaud, recitano con un pensiero che si sposta, e quelli che lo lasciano fermo. Io prediligo i primi. Li sento vicini al mio modo di essere e, sullo schermo o in palcoscenico, riconosco quel pensiero irrequieto e curioso, quell’energia vitale che si muove senza trovare pace.
E’ una commedia? E’ una tragedia? – si domandava Bernhard già negli anni settanta, e lui sì che di attori se ne intendeva.
Riferimenti bibliografici:
R. Andò, Il trono vuoto, Bompiani, Milano 2014.
R. Barthes, La grana della voce, Einaudi, Torino 1986.
J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina Raffaello, Milano 1996.
L. Sciascia, Il volto sulla maschera, Mondadori, Milano 1980.
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