Assassinio sull'Orient Express

Nel romanzo di Agatha Christie del 1934, un treno, l’Orient Express, sul quale è stato commesso un delitto, rimane bloccato sulle Alpi da una valanga provocata da una tempesta di neve. Lo stesso accade nei film che ne sono stati tratti, compreso quello del 1974 di Sidney Lumet, in cui il ruolo del detective Hercule Poirot era sostenuto da Albert Finney. Situazione di temporaneo isolamento spaziale, astutamente congegnata da un’abile scrittrice di gialli, al fine di aumentare la suspense e dare il massimo risalto alle capacità deduttive dell’investigatore. L’invenzione di Poirot da parte della Christie infatti si pone più sulla scia di Sherlock Holmes che su quella dell’Auguste Dupin di Poe, anche se si può dire che ambedue utilizzino un metodo d’indagine scientifica di matrice matematica: ma se gli interventi di Holmes servono sempre (o quasi sempre) a ristabilire un ordine accettabile del mondo, temporaneamente messo a rischio, a Dupin il mondo mostra sempre, anche dopo la soluzione del caso, il suo volto sfingeo. Come diceva Artaud del reverendo Lewis Carroll, si sente che, dopotutto, Holmes e Poirot (nonché miss Marple), Conan Doyle e la Christie, godono di buona salute, mentre la vera disperazione è affare di Poe. È certo, comunque, che Poirot si muove, di solito, nell’ambito di quella preponderanza della ragione che Kracauer, nel suo saggio Il romanzo poliziesco, già nel 1925 identificava come la grande illusione della narrativa di questo genere.

Non mi sento di dire che il Poirot di Kenneth Branagh rovesci del tutto lo stereotipo, come non ci riusciva, del resto, quello di Lumet, però compie alcuni tentativi in questo senso, e qua e là ci si avvicina, certo non nei momenti in cui si costringe a una pedissequa fedeltà al romanzo: per esempio durante gli interrogatori, spesso filmati con un ricorso troppo meccanico al campo/controcampo. Si pensi invece alla sequenza iniziale a Gerusalemme, al Muro del Pianto, in cui la dinamica investigativa si fonde con le suggestioni del luogo sacro; o al bellissimo piano-sequenza nella stazione di Istanbul, tra la confusione dei preparativi, alla partenza del treno; oppure, ancora, al riferimento finale, per quanto forse un po’ facile, all’Ultima Cena, quando i dodici “giurati” (i dodici assassini) vengono assimilati ai dodici Apostoli – anche se sarebbe troppo assegnare a Poirot il ruolo di Cristo.

Ma non solo. Nel film di Branagh, sceneggiato da Michael Green, è come se il treno restasse bloccato anche nel tempo, sospeso in abisso su un ponte fantastico, dopo una corsa altrettanto fantastica tra montagne spettrali. La computer-grafica disegna il paesaggio d’incubo nel quale si muovono ombre e fantasmi, sul tipo di quelli che infestavano il treno di Zemeckis in Polar Express (2004): fantasmi nella nebbia e nella neve, che non si capisce come siano riusciti a scendere da un treno sospeso sull’abisso, o che si aggirano quasi senza peso sul tetto innevato di vagoni che hanno le luci accese, ma sembrano tutti vuoti, come se gli altri passeggeri fossero spariti e le uniche presenze (fantasmatiche) fossero concentrate in quella fatidica carrozza-letto. Poirot indaga e interroga, smaschera falsi indizi con la consueta maestria e trova i colpevoli, ma la soluzione del caso è inutile; su tutto, alla fine, aleggia un senso di sconfitta, analogo a quello cui andava incontro lo Sherlock Holmes atipico di Billy Wilder in Vita privata di Sherlock Holmes. Qui, anche Poirot si porta dietro, ben sistemato nella valigia, tirato fuori ogni tanto e riguardato con malinconico rimpianto, il ritratto fotografico d’una donna misteriosa: il peso d’una scomparsa, forse d’una perdita. Un Poirot anti-Christie.

Un treno bloccato nel tempo, s’è detto. Ma in che epoca, allora, visto che Michael Green, dopo Blade Runner 2049, si conferma uno specialista nel mescolarle, le epoche? È il 1935, anno in cui Agatha Christie scrive il romanzo? O il 1932, anno del rapimento del piccolo baby-Lindbergh, trasposto in quello, immaginario, della piccola Daisy Armstrong? Forse è l’anno sempre presente, sempre attuale, della malvagità proliferante, della malvagità che genera necessariamente risposte altrettanto malvagie. Agatha Christie non è certo Poe, ma dodici colpevoli, rispetto al classico colpevole singolo, formano proprio, non a caso, una comunità criminale, seppure piccola – uno specchio della società, si potrebbe dire, uno specchio non tanto deformante. E di fronte a questo, anche Poirot deve fermarsi.

Un’ultima notazione, sui baffi finti di Kenneth Branagh. Molti, pur lodando la sua bravura d’attore, hanno criticato il fatto che i suoi baffi siano così evidentemente posticci, da trovarobato teatrale. Ce li avevano anche Albert Finney e Peter Ustinov, nei loro film, ma meno ingombranti. Del resto, sono un particolare dell’aspetto di Poirot sul quale Agatha Christie insiste molto. Nel film di Lumet, Finney li proteggeva accuratamente per la notte, con la cera e una retina. Qui, i baffi diventano maschera, protesi, artificio teatrale, un po’ sul tipo di quelli che Bressane faceva portare a Nietzsche ne I giorni di Nietzsche a Torino. Poirot non impazzisce, non abbraccia nessun cavallo, ma la sconfitta della ragione, anche lui, ce l’ha stampata sul viso, come una maschera derisoria. Sul viso e, alla fine, nel corpo, nell’improvvisa stanchezza dei suoi passi desolati in quella stazione anonima, tra la neve che continua a cadere.

Riferimenti bibliografici
A. Christie, Assassinio sull’Orient Express, Oscar Mondadori, Milano 2000.
S. Kracauer, Il romanzo poliziesco. Un trattato filosofico, Editori Riuniti, Roma 1997.

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