Fluttuano lentamente cumuli di nuvole su un velario trasparente. Come sospeso nel vuoto si rivela in una luce tenue l’interno di un misero tugurio. È un luogo spettrale e come un fantasma appare una ragazzina vestita di bianco, il volto di cera, la coroncina di fiori sul capo, una croce cucita sul petto (una immagine che rievoca la piccola Rosalia, il cui corpicino imbalsamato è esposto al cimitero dei Cappuccini di Palermo) e comincia a raccontare l’eco di una favola, arcana e nera, che ci giunge dall’aldilà, che è anche un aldiquà: “In una casetta, persa nel cielo dei ruderi, c’è una vecchina. Appesi al muro i ritratti dei genitori morti e di una misteriosa fanciulla”.

Potrebbe essere una catapecchia nel cuore della vecchia Palermo, dalle parti dell’Albergheria o del Capo. Quando sul cielo sopra Palermo si gonfiano e fluttuano verso sera le nuvole bianche è come se sulla città si distendesse un sortilegio, un sipario che pare un sudario, aprendo il varco, nei vicoli oscuri e nei suoi tuguri, ad apparizioni fatate e spettrali. È l’atmosfera con cui si apre la messa in scena di Assassina di Franco Scaldati ad opera di Franco Maresco in coregia con Claudia Uzzo (in prima nazionale al Ridotto del Teatro Mercadante, prodotto dal Teatro di Napoli con il Teatro Biondo di Palermo e in collaborazione con l’associazione Lumpen).

Assassina è tra i testi più visionari e folgoranti di Franco Scaldati, potente voce poetica del nostro Novecento che ha intessuto con la sua drammaturgia, il ricamo evanescente e icastico, affabulatorio e ipnotico della sua lingua palermitana, una sorta di mitografia popolata di figure fantasmatiche e insieme carnali, tenere e incantate, arcaiche e reiette, che indossano la loro miseria e i loro sogni ad occhi aperti come fossero abiti dorati e gioielli preziosi, che sembrano essere in confidenza con un mondo invisibile, con creature oniriche, con animali parlanti, con elfi e fate che si nascondono tra le mura scrostate e negli androni degli antichi palazzi in disfacimento illuminati da un raggio sghembo di luna. “Ricinu ch’e lamp’a sira su scintille sospese i juocu i fuocu. O’, s’è persa a luna ‘e macerie ‘o cielu. Cuminciamu”: così l’apparizione della giovanissima morticina (resa con grazia e delicatezza da Aurora Falcone) dà inizio al gioco scenico, come fosse una sua evocazione, la messa in scena di un sortilegio, di un incantamento che investe di un’aura “oscura e lucente” gli oggetti e le presenze di quel luogo: una vecchia radio, una panchetta di legno, un cucinino, un giaciglio, un minuscolo gabinetto entrambi nascosti dietro una tendina, mentre le voci dei morti suggellano l’avvio di quell’incantesimo:

Voce Padre: St’aria notturna crea infinite immagini.
Voce Madre: Immagini oscure e lucenti.
Voce Padre: Oscure e lucenti.
Fanciulla: U lustru ‘a lucerna illumina a caverna.
Padre: Fragili e silenziosi vannu.
Madre: Cercanu u luogu unn’ogni cosa à iniziu.

Vittime di questa “affatturazione” sono due figurette, parvenze altrettanto spettrali, la “vecchina” e l’”omino”, che abitano la casetta e insieme si fanno abitare dal mistero di quel luogo, l’uno all’insaputa dell’altro, quasi fossero avvolte da un alone di invisibilità che improvvisamente prende corpo, quando, con un soprassalto, si incontrano e riescono a “vedersi”. L’intersecarsi di allucinatorio e quotidiano prende via via corpo e suono sulla scena e il riverbero della voce poetica, gutturale e fluida di Scaldati come un contrappunto spiritico che viene da un altrove si insinua nell’aura del movimento scenico, mentre si delineano i riti quotidiani, che si rispecchiano e si corrispondono prima con la vecchina e poi con l’omino affidati rispettivamente alla sghemba, guizzante, angolosa, danza recitativa di un geniale attore storico di Scaldati come Melino Imparato e alla terragna, attonita, inerme presenza di un attore popolare come Gino Carista. Sono irresistibili i loro duetti nella seconda parte quando l’uno si fa specchio dell’altro, tra sorpresa, diffidenza e paura (in una eco della situazione shakespearina dell’incontro tra Trinculo, Stefano e Calibano).

Con Scaldati Maresco ha negli anni intessuto un sodalizio empatico, innervato da un identico amore per il sostrato memoriale dei luoghi, delle atmosfere, del vissuto, dell’umano che un microcosmo, un coacervo di atavismi e insieme di brucianti compresenze, come Palermo riesce a sprigionare proprio nel momento in cui tutta quella “forma del tempo” viene a svanire, a svaporare come un fumo, come il disegno delle nuvole. A Scaldati ha dedicato un film Gli uomini di questa città io non li conosco (2015), prima ancora lo aveva chiamato con Daniele Ciprì come attore per Il ritorno di Cagliostro (2003), e in teatro nel 2016 aveva messo in scena un omaggio al poeta palermitano, Tre di coppie, proseguendo con gli inediti scaldatiani di Appunti per Falcone (2022).

Nella messinscena di questo Assassina Maresco gioca con una dimensione cinematografica già insita nel testo che si apre convocando dal nulla, da un cielo vuoto, le immagini “oscure e lucenti” (“’N sala s’è spenta a luce e, ‘o lustru ‘a luna, s’illumin’ ‘a scen’ e sogni”), quasi sullo schermo della mente, e si chiude con lo svanimento delle ombre che abbiamo visto muoversi in quella scatola onirica (“Aranciu svanisce a scena; cuomu ‘o cinema”). Se la vecchina parla con la propria stessa ombra che pare emergere da sotterra o ingaggia una battaglia con un invisibile topo che ha ribattezzato Beniamino; se dialoga con la gallina Santina chiusa in una gabbietta e nel sonno viene continuamente risvegliata dalla mosca Lucina; se nella bacinella in cui si lava i piedi scorge l’immagine di un pescecane; e se l’omino si esibisce nella sua pantomima ebbra e grottesca con l’ombrello sottobraccio e la cassetta per l’elemosina come in una comica finale; se canta sguaiatamente le sue canzonacce; se spernacchia e prende a parlare con un accento tedesco storpiato mimando pose da soldato nazista; se sciorina le vocali come fossero ricami; se prende a raccontare la leggenda del coccodrillo venuto dal Nilo che si perde nei meandri delle fogne di Palermo per finire imbalsamato davanti alla bottega di un macellaio: allora Maresco ci restituisce questa soglia tra sogno e reale come se assistessimo a un pezzo di teatro Kabuki mescolato con i guizzi dell’avanspettacolo.

Emergono elementi visivi che diffondono in scena un clima allucinatorio: le ombre, le nuvole e il fumo vaporoso che scorre sul velario, l’incertezza del sogno. La regia costruisce una partitura visivo-sonora accentuando le onomatopee, facendo lampeggiare a intermittenza di lampi di luce la scena, facendo irrompere il sonoro distorto della voce di una radio che si accende all’improvviso secondo intervalli imprevedibili diffondendo le note di vecchie canzoni e pezzi di jazz, giocando con le ombre che si proiettano allungate sulle tendine del bugigattolo, insufflando la scena di una sorta di animismo, di spiritico effluvio che rende ogni minimo gesto e ogni sillaba musicalissima del testo di Scaldati una risonanza interiore, l’eco di una “caverna” delle ombre che incarna la materia di cui sono fatti i sogni. Un teatro di spettri e un teatro d’ombre che ci giunge come da una lontananza arcaica e arcana, da un cielo lontano dove si infrangono le fantasie e si fanno polvere, ruderi, assorbiti dalla luce lunare.

L’ombra, una materia del lontano […] capace di influenza diretta, quasi tattile, quasi olfattiva, su ciò che abbiamo di più vicino, di più immediato, quasi intimo. […] Quando cade la notte, l’ombra non regna soltanto sullo spazio che ci circonda: […] prendendo possesso dei luoghi, l’ombra prende possesso di noi. L’animismo non è quindi soltanto un antropomorfismo della scomparsa: è anche un antropomorfismo del luogo, la condizione di possibilità di ogni esperienza empatica e auratica di fronte agli oggetti inanimati (Didi-Huberman 2001, p. 127).

Così lo spettacolo ci avvolge nella sua rete di fantasmi, ci ingaggia in una lotta tra ombre dove si può essere assassinati e resuscitare subito dopo, sdoppiando la capacità del luogo di divenire umano e la capacità della forma umana di divenire un luogo, dissolvendosi in una impersonalità perturbante. Viene in mente allora il Pasolini di Che cosa sono le nuvole? (1968): lì il burattinaio delle marionette di carne, qui la fanciulla-spettro che conduce il gioco e tira i fili invisibili. Sono i vapori dell’immaginazione, sono le nuvole che sanno il mistero racchiuso in questa “scena comica” che è il mondo (“Interu munnu è ‘na scena comica”). Totò dietro le quinte del teatro di burattini sussurrava all’orecchio di Ninetto “Siamo un sogno dentro un sogno”: ecco che cosa sanno le nuvole.

Riferimenti bibliografici
F. Scaldati, Teatro 1975-1979, Teatro 1981-1990, a cura di V. Valentini e V. Raciti, Marsilio, Venezia 2022.
G. Didi-Huberman, Sculture d’ombra, Umberto Allemandi & C, Torino-Londra-Venezia-NewYork 2001.

Assassina di Franco Scaldati. Adattamento e regia: Franco Maresco, Claudia Uzzo; scene e costumi: Cesare Inzerillo e Nicola Sferruzza; musiche: Salvatore Bonafede; video Francesco Guttuso per Lumpen Film; luci: Carmine Pierri; interpreti: Gino Carista, Aurora Falcone, Melino Imparato; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo; durata: 75′; anno: 2023.

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