Artivismo (composto di arte più attivismo) è il titolo del nuovo libro di Vincenzo Trione (Einaudi). Un libro velocissimo, torrenziale, dove il rigore del saggista si stempera in una passione che talvolta tocca il romanzo, tanto è forte l’urgenza di condurre il lettore attraverso non uno scenario soltanto – come farebbe il critico di buona scuola, tracciando un panorama unitario delle “ultime tendenze” – bensì un continuo rovesciamento, un’agglutinazione incessante di scenari secondo un principio che avvicina il critico al collezionista mai sazio, lo distoglie da un eccesso di geometria, lo costringe all’azzardo e alla finezza, lo mette nelle condizioni di non poter rinunciare all’arbitrio, alla perplessità, al ripensamento.
Critico d’arte, curatore e docente, Trione è andato sviluppando nei suoi precedenti volumi (Effetto città, L’opera interminabile) un’idea di critica come museo, collezione virtuale in continua trasformazione. Niente di più chiaro e semplice: ciascuno di noi si trova a far fronte a un incessante succedersi di immagini, che permangono per un tempo limitato ma alcune delle quali, per qualche ragione spesso sconosciuta, si imprimono maggiormente, tracciando un solco nel quale altre immagini scorreranno producendo affinità, racconti, storie. Trione parte da questa condizione comune cercando al tempo stesso di renderla, da passiva, attiva. L’imprimersi di immagini, e delle domande che queste immagini suscitano, non è casuale nel momento in cui l’esercizio del gusto e della preferenza cominci a muoversi alla stessa velocità della vita che ci investe, istante per istante.
Artivismo coglie un punto nevralgico nell’immenso panorama dell’arte del nuovo millennio: la necessità febbrile degli artisti di tutto il mondo di fare della propria vocazione artistica, del proprio impegno estetico, un atto politico. Il panorama, va da sé, è vastissimo e contraddittorio, attraversato da correnti contrarie e spesso violente. Ciò che accomuna i numerosissimi protagonisti di questo universo, dalle star riconosciute (Marina Abramovich, Ai Weiwei, Salgado, ecc.) a un pulviscolo di talenti ancora in erba è un cambio radicale del punto di applicazione dell’energia creativa: non più (o non più soltanto) la tela, i materiali modellabili, non più la semplice installazione ma la società stessa, il mondo produttore incessante di ingiustizia.
Gli artisti del nuovo millennio, in altre parole, sentono che l’effetto un tempo realizzato da un Giotto, da un Michelangelo dentro chiese e palazzi deve scendere nelle vie e nelle piazze di ogni giorno, intercettare la nostra distrazione forzata, spezzare l’involucro della falsa coscienza, fino a metterci davanti, meglio se a sorpresa, lo specchio che il potere (che è pulviscolare e diffuso) vuole farci evitare. «Come mi è difficile» scriveva Wittgenstein nel 1940 «vedere ciò che è davanti ai miei occhi!».
Siamo non in un’epoca di cambiamenti, ma di fronte a un cambio d’epoca. Come è finita l’epoca delle grandi archistar dei decenni scorsi, così sembra essere finita (propongo un evento-chiave: la mostra di Damien Hirst Treasures from the Wreck of the Unbelievable del 2017, a Venezia) l’idea di arte come gioco-provocazione miliardario. Gli artisti che Trione accomuna sotto il termine «artivismo» pagano spesso di persona, scelgono spesso strade difficili che non garantiscono né ricchezza né celebrità.
Procedendo verso la fine, il libro si fa sempre più interrogativo, fino alla bellissima metafora finale del silenzio, del non-detto come forma suprema di testimonianza di una verità senza scampo, che le sirene della post-verità vorrebbero cancellare, relegandola alla stregua di un sogno o di una farneticazione. Una piccola riflessione accompagna il lettore, una volta terminato il libro. C’è, negli esponenti più acuti di questa tendenza globale, un senso di allarme, di panico claustrofobico. Esistono spiriti piccoli e grandi, qui come ovunque. E se gli spiriti piccoli si accontentano di accusare o insegnare (secondo un’agenda fin troppo saputa: parità di genere, migranti, sopravvivenza del pianeta, dispotismo, discriminazione ecc.), nei maggiori fa la sua apparizione, in forme inedite, l’antico mal de vivre. E quindi, come dice Trione, il silenzio. L’arte, come anche la critica, non esiste infatti senza crisi, e la crisi intacca sempre la facile partizione buoni/cattivi.
È la sfida della globalizzazione. Ci si trova a fare, disfare, impegnarsi, protestare, provocare stando sempre dentro un’unica bolla. L’angoscia, il panico accompagnano il lavoro febbrile di chi cerca la strada per uscire da questa bolla e bruciare finalmente l’agenda. Perché l’artista, come il vero intellettuale, anche se vive tra noi e sembra uno di noi, è e rimane uno che viene da fuori, e ci porta uno sguardo che viene da fuori. La sua natura è disfunzionale anche quando si traveste da funzionario. Forse il grande artista del XXI secolo, a differenza di altre epoche, non conosce l’altrove che lo ha generato, non ha un Virgilio che ce lo riporti: cerca di tornare in un luogo che non ricorda più, e in questa ricerca allucinata ci racconta – contro tutto e contro tutti – quello che siamo davvero, ossia quello che non vogliamo sapere.
Il collezionista Trione ci racconta tutto questo, come in un film. Da vedere.
Riferimenti bibliografici
V. Trione, Effetto città: Arte, cinema, modernità, Bompiani, Milano 2014.
Id., L’opera interminabile: arte e XXI secolo, Einaudi, Torino 2019.
Vincenzo Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, Einaudi, Torino 2022.