di ANTONELLA DI GANGI
Artemisia Gentileschi a Napoli, la mostra alle Gallerie d’Italia.

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria (1615-1617), dettaglio.
Un ritorno a Napoli, una città mai sentita «patria», dove Maestra Artemisia giunse nel pieno della sua maturità artistica e trascorse gli ultimi anni della sua vita. Qui fu accolta e apprezzata, rinnovò la sua tavolozza e il suo modo di fare pittura. A Napoli avviò una fiorente bottega, influenzò e fu influenzata da Giovanni Lanfranco, Francesco Fracanzano, Agostino Beltrano, Bernardo Cavallino, Onofrio Palumbo. Si affrancò dalle influenze caravaggesche, si confrontò con le opere di José de Ribera e Massimo Stanzione, divenne acclamata autrice di ritratti, «distinta levatrice» contribuendo «al nascere della pittura napoletana» (Longhi 2011, p. 81) e mantenne attive le sue relazioni con mecenati e protettori come il Granduca di Toscana, il commendator del Pozzo, il Conte Ruffo di Calabria e Carlo I d’Inghilterra.
La nuova sede museale delle Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo – dallo scorso anno nel palazzo dell’ex Banco di Napoli in via Toledo (progettato tra il 1936 e il 1939 da Marcello Piacentini e restituito alla città come palazzo di esposizioni grazie al progetto dell’architetto e designer Michele De Lucchi) – ospita la mostra Artemisia Gentileschi a Napoli, dedicata al lungo soggiorno partenopeo della pittrice. Una notevole esposizione monografica finora mai dedicata all’artista realizzata grazie alla collaborazione della National Gallery di Londra, del Museo e Real Bosco di Capodimonte, dell’Archivio di Stato di Napoli e dell’Università di Napoli L’Orientale. La mostra costituisce, infatti, un approfondimento di una precedente esposizione realizzata nel 2020 a Londra – altro luogo fondamentale per Artemisia che qui trascorse in una nuova collaborazione artistica l’ultimo anno di vita del padre Orazio alla corte di re Carlo I – ed è stata realizzata con la consulenza speciale di Gabriele Finaldi e la curatela di Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio.
Il 1630 segna l’inizio del soggiorno napoletano della pittora, come amava definirsi, durato più di vent’anni fino alla sua morte nel 1654 nonostante «non avesse voluntà de più starce, si per li tumulti di guerre, como anco il male di vivere», come testimoniato dalla lettera ad Andrea Cioli dell’11 febbraio 1636 (Gentileschi 2004, p. 120); periodo interrotto solo da qualche breve ritorno all’amata Roma e da un viaggio in Europa che si concluse, appunto, alla corte inglese. Nella città partenopea si trasferì con il fratello Francesco, che assunse il ruolo di segretario, e con le due figlie delle quali si occupò autonomamente dopo la prematura morte del marito.
Maestra Artemisia fu un personaggio sicuramente singolare per l’epoca. Donna altera, fiera ed elegante abituata a frequentare le corti più importanti d’Europa, a suo agio tra sete e gioielli, ma tanto forte e determinata da entrare prepotentemente e di diritto in un mondo all’epoca quasi esclusivamente maschile. Fu la prima donna ammessa nel 1616 alla prestigiosa Accademia delle Arti del Disegno fiorentina e divenne l’«unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia la pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità» (Longhi 2011, p. 57). Giudizio anticipato anche dal padre Orazio che, benché noto per la «lingua satirica» che «offendeva tutti» come ci ricorda Giovanni Baglioni nelle sue Vite, decantò le lodi di Artemisia in una lettera alla Granduchessa di Lorena:
…mi ritrovo una figliola femina con altri tre maschi, e questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nella professione di pittura, in tre anni si è talmente appraticata, che posso ardir di dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere, che forse principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere, come a suo luogo e tempo farò vedere a vostra altezza serenissima… (Gentileschi 2004, p. 137).
I tre gradini rivestiti di metallo dorato su via Toledo ci accolgono all’interno del palazzo come un prezioso tappeto d’invito alla corte delle aristocrazie committenti di Maestra Artemisia e degli altri artisti attivi in città al tempo e ci conducono nel vivo dell’esposizione, dove le opere della pittrice e dei colleghi si ritrovano nuovamente a dialogare nelle buie sale emergendo dall’oscurità come i soggetti nelle tele esposte.
Il percorso espositivo si apre con l’Autoritratto in veste di Santa Caterina d’Alessandria proveniente dalla National Gallery di Londra e subito si chiarisce la preferenza dell’artista nella scelta di temi con protagoniste figure femminili eroiche alle quali verranno dedicate alcune sezioni nella mostra (Sante vergini e martiri, Donne forti e intrepide, Eros e Thanatos). Artemisia affronta questi argomenti con la libertà iconografica che è propria della pittura con la quale riesce, però, a dare una interpretazione oltre il soggetto e, con l’uso di elementi e disposizioni ambigue, a rendere possibili molteplici interpretazioni.
Non essendo raffigurato il «prima» e il «dopo» di questo momento, il senso resta sospeso tra più possibilità; si può interpretare il momento all’infinito, ma anche non interpretarlo per niente: esso è contraddittoriamente letterale e polisemico. Questo momento dipinto l’ho chiamato altrove «numen», perché è come il gesto silenzioso di un dio che dà esistenza a un destino con una semplice inflessione della sua volontà, senza nemmeno commentare o spiegare questo destino (ivi, p.149).
Per dirla con Roland Barthes nel saggio Nota su “Giuditta e Oloferne”, l’artista predilige soggetti dove il «numen della pittura» diviene «un genere di avvenimento assoluto, che in qualche modo “costringe” l’interpretazione» (ivi, p.150). Le donne, le eroine rappresentate da Artemisia – il più delle volte autoritratti – sono infatti protagoniste in un modo assolutamente nuovo e sfruttano appieno le infinite possibilità che il numen della pittura offre alle nostre interpretazioni. E lo fanno grazie allo sguardo, quello che Nancy definisce «oggetto» strano e misterioso proprio della pittura del ritratto – «la cosa in sé di un’uscita da sé, solo con la quale un soggetto diventa soggetto» (Nancy 2013, p. 62) –, che diviene fulcro dell’organizzazione dello stesso spazio pittorico. Lo sguardo espone il soggetto, ce lo presenta, in qualche modo è il numen, e ci offre il non visto.
Osservando le opere esposte, incontreremo gli sguardi complici tra Dalila e Giuditta con le serve, o di condivisione tra le donne riunite intorno al neonato nella Nascita del Battista – che Longhi definisce «il più condotto studio d’interno, come luce e determinazione ambientale che il ’600 italiano abbia prodotto» (Longhi 2011, p. 71) –, ma anche lo sguardo di sfida che scruta l’osservatore nell’Autoritratto in veste di Santa Caterina d’Alessandria (con la stessa forza di una Maja o un’Olympia), o sguardi volti altrove come in Giuditta e la sua ancella e nell’Annunciazione. Qui la Vergine non incrocia lo sguardo dell’angelo né si rivolge allo Spirito Santo, ma sembra addirittura che lo distolga dal suo destino. Tutti, però, ci invitano ad andare oltre il visibile.
Ancora lo sguardo torna protagonista nell’Autoritratto del 1637 (oggi conservato alle Gallerie Nazionali di Roma, probabilmente l’ultimo del periodo napoletano), che apre la sezione Artemisia. Immagine, mito, storia, dove la pittrice non più giovane si rappresenta sempre volgendolo a noi, con il capo orgogliosamente ornato da una corona d’alloro, la tavolozza in una mano e il pennello nell’altra, nell’atto di dipingere un ritratto virile che appare alla sua stessa altezza e per il quale, secondo Eva Menzio, «non si può infatti fare a meno di pensare che i due personaggi corrispondano a due diversi aspetti della personalità di Artemisia, la sua indiscussa femminilità unita a un carattere forte e virile» (Gentileschi 2004, p. 147). Del resto lei stessa scriveva al Conte Ruffo «l’opere saran quelle che parleranno» alludendo alla continua necessità di superare lo stigma di artista donna.
Peraltro sono ben note le vicende biografiche che segnarono la vita dell’artista e che ovviamente influirono sul carattere, sulle scelte artistiche e sulla necessità di affermare costantemente la propria identità, la propria autonomia. Orfana di madre a solo 12 anni, primogenita di altri tre fratelli maschi, sostituì la madre nella gestione della casa e della famiglia; fu stuprata a 18 anni (anche se in primo momento si riteneva a 15) dall’amico e collaboratore del padre Orazio, Agostino Tassi, al quale fu affidata per «appraticarla» nella prospettiva. Dopo un anno subì il processo che spesso assunse toni di diffamazione nei suoi confronti – Tassi fu condannato ma Artemisia fu sottoposta a visite ginecologiche durante il processo e alla tortura dei sibili – e ne uscì molto provata, giudicata una prostituta. Si sposò solo due giorni dopo la sentenza in Santa Croce a Firenze con il pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi, in un matrimonio riparatore che ebbe l’unico vantaggio di introdurla nella comunità artistica fiorentina.
Artemisia contrappone donne forti, che conoscono il piacere, alle donne angelicate o dannate rappresentate dagli artisti precedenti. Sono spesso tra loro complici nei gesti oltre che negli sguardi, occupano prepotentemente la tela ed emergono grazie ai luminosi colori dei loro abiti dipinti con «liquidità magistrali, in lampi molli e grassi, in deliziosi anfratti pittoreschi» (Longhi 2011, p. 64). Non c’è competizione tra loro, e ne è un esempio la giovane età delle ancelle che accompagnano Giuditta nelle varie versioni dell’opera. Ancora un altro modo per affrancarsi dall’influenza caravaggesca dove la serva è raffigurata vecchia e brutta.
La mostra espone circa 50 opere, più della metà di Artemisia, le altre realizzate dagli artisti attivi a Napoli al tempo tra cui Vaccaro, Stanzione, Finoglio, Guarino, raggruppate in varie sezioni tematiche, oltre quelle già indicate, nelle quali dialogano le loro opere dove spesso hanno affrontato gli stessi temi: Tra Roma, Napoli e la Spagna propone l’opera Cristo benedice i fanciulli (Sinite parvulos) che costituiva il nucleo centrale di un più ampio ciclo di tele con Cristo e i dodici apostoli. La sezione Le grandi commissioni, invece, si riferisce al primo periodo napoletano dove Artemisia condivise con Lanfranco, de Ribera, Stanzione le importanti commissioni pubbliche per un ciclo di tele sulla vita di Cristo e Maria e dei fondatori della chiesa di Pozzuoli e realizzò opere monumentali, come il San Gennaro nell’anfiteatro e San Procolo e Santa Nicea – esempio per il Longhi di «pittura sopraffina» (Longhi 2011, p.72) –, conservate nel coro della cattedrale di Pozzuoli, che si distinguono anche per avere come protagonisti delle figure maschili.
La sezione I piccoli formati, tra sacro e profano si impone il prezioso dipinto olio su rame Madonna col bambino, e l’ultima sezione, intitolata Favole mitologiche, offre sicuramente una nuova vivacità espressiva ma ancora un’ulteriore riflessione sui ruoli sessuali. L’esposizione si sofferma anche su un’altra importante figura femminile del Seicento napoletano, Diana “Annella” Di Rosa. Come Artemisia figlia d’arte ma ancor di più legata al mondo artistico da una fitta rete familiare della quale faceva parte tra gli altri Andrea Vaccaro. Sposata con il pittore Beltrano, allievo di Massimo Stanzione, probabilmente uccisa prematuramente dal marito perché geloso delle attenzioni del maestro.
L’esposizione rende giustamente protagonista la maestra pittora Artemisia, la affranca dallo stigma di pittrice caravaggesca, dall’influenza dell’impronta paterna, esalta il suo stile che sarebbe diventato ben presto carico di una irriducibile singolarità riunendo opere collocate in varie collezioni private e prestigiosi musei europei, e compie un ulteriore passo avanti nella complessa strada delle attribuzioni grazie anche al prezioso contributo di ricerca archivistica dell’Archivio di Stato di Napoli. Una nuova occasione, quindi, di aggiornamento degli studi scientifici sulla pittrice da sempre molto complessi, che già Longhi aveva avuto necessità di rivedere come testimonia nella riedizione del saggio Gentileschi padre e figlia, nel quale ci ricorda che:
[…] soprattutto quando si sbriga la fastidiosa bisogna di un catalogo, bisogna annoiarsi a dovere e non fallare; se è vero che proprio a libri di tal fatta gli studiosi si rivolgono per aver notizie preliminari esatte, senza perder tempo, avendo qualcosa di meglio da fare, subito dopo il disbrigo di quelle faccende di ordinaria amministrazione (ivi, p.58).
Riferimenti bibliografici
A. Banti, Romanzi e racconti, a cura di F. Garavini con la collaborazione di L. Desideri, Mondadori, Milano 2013.
M.A. Bazzicchi, Con gli occhi di Artemisia. Roberto Longhi e la cultura italiana, il Mulino, Bologna 2021.
A. Gentileschi, Lettere, a cura di E. Menzio, Abscondita, Milano 2004.
R. Longhi, Gentileschi padre e figlia, Abscondita, Milano 2011.
J.-L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013.
Artemisia Gentileschi a Napoli, a cura di Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio, 3 dicembre 2022 − 19 marzo 2023, Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo.