“Di tutti i linguaggi ritengo che la pittura sia il più debole e il più resiliente, e che resista ad ogni concetto di potere, di forza, e così via… tutto ciò alla fine non dà una soluzione. L’unica cosa che funziona è la debolezza, la gentilezza, e la percezione della… perfezione dell’imperfetto”. Queste parole vennero pronunciate dall’artista Francesco Clemente ad una serata di gala per la Skowhegan School of Painting and Sculpture di cui era l’ospite d’onore come artista premiato, e a cui ebbi la fortuna di assistere nel 2019. Questa breve dichiarazione mi colpì particolarmente perché per la prima volta sentivo un artista fare un riferimento così esplicito al concetto di “pensiero debole”, teorizzato a partire dal famoso libro omonimo edito da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (1983). In realtà, come avrei scoperto in seguito, un movimento denominato Arte Debole, ormai quasi dimenticato, è effettivamente esistito in Italia negli anni ’80-’90, ad opera principalmente dell’artista e teorico Giancarlo Pagliasso, non a caso allievo di Vattimo quando insegnava estetica all’Università di Torino. Esiste dunque una riflessione artistica attorno al “pensiero debole”, tuttora feconda ma poco conosciuta, e meritevole di essere rivisitata. Nell’aprire, per così dire, il cerchio ermeneutico, avanzerei l’ipotesi che la pittura – e probabilmente il fare artistico in senso lato – produca essa stessa pensiero, ed è “pensiero debole” nel senso più autentico del termine.
Ciò implica una contestualizzazione dell’arte rispetto al linguaggio filosofico e delle scienze, evocando la figura dell’artista-filosofo, o artista nicciano che indebolisce le strutture forti, nel senso in cui lo intende Vattimo. Ma se la pittura è, fra tutti i linguaggi (artistici), arte debole per eccellenza, in che senso lo è, e quali sono le conseguenze nel pensarla tale? Ciò naturalmente chiama in causa il ruolo della pittura nell’arte contemporanea, e la sua vocazione alla metafora ed al linguaggio poetico. Secondo il pensiero di Vattimo, che intendo sviluppare, il discorso sull’arte deve essere collocato nel contesto dell’ermeneutica da un lato, e del pensiero debole dall’altro. L’ermeneutica ci consente di ripensare il rapporto tra pensiero e fare artistico in senso circolare, non univoco. Non è un problema di traduzione, ma di interpretazione – dove la struttura che sottende alla relazione è dialogica, ovvero orizzontale, non verticale.
Vattimo chiarisce nel primo paragrafo di Poesia e ontologia, che il problema dell’arte deve essere posto ontologicamente, e perciò tale questione non può essere limitata alla sfera estetica (una posizione che riprende la domanda posta da Heidegger nel saggio L’origine dell’opera d’arte del 1936). In effetti, pensare l’arte in un senso ontologico significa porre il tema della “differenza ontologica” sottolineato da Heidegger come il tema centrale della pratica ermeneutica che tale approccio tematico richiede. La “verità” dell’opera d’arte è quindi rivelata attraverso un processo di interpretazione: «Nell’opera d’arte, e questo è un fatto attestato dall’esperienza di ogni lettore, si fa valere un appello di verità, di valore (o disvalore), che non si può trascurare» (Vattimo 2021, p. 1013).
È in questo contesto che si colloca il discorso attorno all’arte come espressione/segnale dell’indebolimento dell’essere, come testimonianza dell’oblio dell’essere, un ricordarsi di tale oblio (Andenken) che si dà attraverso i resti, frammenti, l’incompiutezza e l’imperfezione, in una visione nichilista dell’esperienza dell’arte e della sua verità. Secondo Vattimo, ormai solo la merce reclamizzata dalla pubblicità si presenta come «perfetta identificazione tra contenuto e forma, compiutezza, definitività dell’opera» (ivi, p. 1537). Questo gusto per il frammento, l’incompiuto e l’indefinito, mentre se da un verso si può ricondurre agli esperimenti delle avanguardie storiche del Novecento e del modernismo stesso, dall’altro è caratterizzante in maniera forse ancora più evidente dell’epoca cosiddetta postmoderna, che del resto, come insegna Lyotard, non deve essere pensata semplicemente come “successiva” al modernismo (nel senso di Überwindung, superamento – termine ancora metafisicamente “forte”) ma addirittura come il modernismo nel suo stato nascente, o come sua dis-torsione, declinazione, invio, destino (Verwindung).
In questo quadro, la pittura nasce debole (almeno nel tempo post-hegeliano, ovvero moderno- contemporaneo), perché ha già dentro di sé la consapevolezza del proprio essere in uno stato di convalescenza – altro significato in cui si può intendere Verwindung, come Vattimo sottolinea in più occasioni, rifacendosi a Nietzsche e Heidegger (Valgenti 2023, pp. 52-54) – come conseguenza della cosiddetta “morte della pittura” (variante della “morte dell’arte” di hegeliana memoria), molte volte annunciata e sempre smentita. Non perché la pittura sia “forte” e quindi smentisca la debolezza, ma proprio in virtù della sua debolezza che le consente di rigenerarsi, adattarsi, plasmarsi secondo un movimento laterale, distorto e flessibile. La pittura in questo senso è arte plastica per eccellenza. Quindi il postmoderno è un momento in cui si offre questa possibilità altra ad un linguaggio che sembrava ormai defunto.
Gli artisti del movimento Arte Debole, formatosi nel 1986 attorno alla figura di Giancarlo Pagliasso, fin dall’inizio si proponevano di creare un’alternativa al clima culturale torinese (e più in generale italiano) monopolizzato da tendenze artistiche come l’arte povera, già consacrata ad arte “ufficiale” nel panorama internazionale. Il movimento nacque dal G.R.M. (Gruppo Ricerca Materialistica) alla fine degli anni ’70, che allora si confrontava soprattutto con il teatro e la performance. Questo tipo di arte, formata dalla sostanza di una materia «ai limiti d’una nuova estasi che non ha nulla di mistico o di religioso, ma… [è] molto intellettuale, e, talvolta, venata d’ironia» (Janus 1986), si rifaceva esplicitamente al “pensiero debole” che qualche anno prima aveva fatto i suoi esordi nel campo filosofico. Questi artisti – il già citato Pagliasso, Renato Ghiazza, Silvana Saini, Cinzia Maccarrone, Pier Luigi Pusole e Bruno Zanichelli, e architetti/designers come Bruno Ester, ed altri, intendevano la “debolezza” nel senso di un eclettismo dei materiali e della eterogeneità degli stili, la rinuncia a un linguaggio/messaggio unitario e coerente nella loro arte, ed il gusto per il piccolo oggetto di sapore spesso Kitsch, ludico e ironico.
Come scrive Lisa Parola nel catalogo Arte Debole, «la caduta della funzione e la continua “tensione distensiva” nell’opera “d’arte”, ci portano ad una completa rivisitazione del lavoro artistico che viene in tal modo “usato” come puro oggetto di piacere. Le scelte tattili: la materia è intesa come “soggetto forte” in contrasto con queste arti così deboli». L’«apparizione di un’estetica elastica» (Parola in Janus 1986) si contrappone all’estetica rigida e severa delle avanguardie “poveriste” e concettuali già storicizzate, che si rivolgevano per lo più a un pubblico colto e specializzato. Nelle intenzioni degli artisti del gruppo Arte Debole, la nuova arte doveva essere «popolare, capace di comunicare con chiunque: anche mediante gli oggetti quotidiani, e quelli disusati» (Pera 2020).
È significativo che l’Arte Debole, nel riscoprire il Kitsch e l’elemento decorativo fino ad allora rifiutato categoricamente dall’arte concettuale e minimalista vada a toccare il tema dell’ornamento, che pure trova una sua tematizzazione nel pensiero vattimiano. Pagliasso infatti coniò il termine «ornamento sporco», forse in contrapposizione a un’idea di ornamento puro e non problematico dell’arte considerata applicata, in favore di un’idea di ornamento come elemento volutamente marginale. L’idea di marginalità dell’ornamento si ritrova nella concezione della metafisica derivata da Heidegger, dove «l’accadere dell’essere è piuttosto, nell’ontologia debole heideggeriana, un evento inapparente e marginale, di sfondo» (Vattimo 2021, p. 1271), e, in ultima analisi, nella concezione della pittura stessa (e forse nell’arte in generale) nell’epoca contemporanea, dove il linguaggio della pittura in particolare è diventato marginale, non più centrale nella concezione estetica del mondo attuale (molto più “centrale”, per esempio, è l’estetica dei mass media, del cinema, della pubblicità – almeno nel senso della loro “rilevanza” e influenza nella sfera del gusto comune).
Al di là dunque delle poetiche specifiche del movimento Arte Debole, ciò che a me preme sottolineare è un’idea di “indebolimento” in senso più ampio, sia in forma materiale che in forma poetico-metaforica. Mentre l’arte debole del movimento omonimo esaltava l’ornamento, il rimando kitsch tipicamente postmoderno, come l’oggetto di massa o di uso quotidiano, una poetica “debole” applicata alla pittura nel senso che intendeva Clemente si articola piuttosto in alcune considerazioni sui materiali e il linguaggio stesso della pittura in generale, nell’epoca post – (o ultra) metafisica.
Anzitutto, la sostanza materiale della pittura si presenta come debole, nel senso di low-tech (se di tecnologia pur si tratta, è una tecnologia storicamente “debole” rispetto alle tecnologie dominanti del contemporaneo). I materiali della pittura (e del disegno, ma anche di certa scultura) non dipendono dalla manipolazione di macchinari e programmi (hardware/software) che dipendono a loro volta da fonti energetiche esterne, e codici prestabiliti (se voglio usare Photoshop devo adeguarmi ai codici del programma che funzionano in un certo modo: devo imparare la lingua della macchina/computer per poter usare i comandi adeguatamente). Questi codici fanno sempre parte di un linguaggio forte nel senso che si basa su processi binari, matematici – non aperti all’interpretazione. È qui che il senso poetico-metaforico della pittura si contrappone al senso letterale-binario del linguaggio codificato necessario per far “funzionare” l’apparato tecnologico necessario a produrre o modificare immagini digitali. Si potrà obiettare: sì, ma il risultato è lo stesso; anche il computer può generare metafore e immagini poetiche. Può darsi, ma queste immagini devono sempre basarsi su delle “unità” costitutive prestabilite, e per quanto microscopiche esse siano, non avranno mai la completa spontaneità – e quindi imprevedibilità – del gesto/segno prodotto dal corpo umano. È l’imprevedibilità e l’indeterminatezza del gesto pittorico che qui ci interessa, non tanto la spontaneità (che è comunque sospetta dal momento che potrebbe essere confusa con naïveté, inconsapevolezza, purezza, ecc. – tutti aspetti che non ci interessa perseguire perché fanno ancora parte di un discorso “metafisico” del fare artistico).
“Debolezza” o “indebolimento” del linguaggio artistico si possono intendere anche nel senso di mancanza di distinzione forte tra “generi” artistici diversi come astrazione e figurazione, o di distinzioni stilistiche che danno unità e compiutezza all’opera. In questo senso l’eclettismo e la “con-fusione” di stili e generi tipica del postmoderno può considerarsi un segnale indicativo di questa concezione di arte debole. Ma è proprio nella sua incompiutezza o forse “imperfezione”, per usare l’espressione di Clemente, che l’arte trova un suo senso più profondo – una sua verità, per dirla con Heidegger.
Riferimenti bibliografici
Janus, a cura di, Arte debole: Figure della derealizzazione tra manierismo filosofico, artificio e décor fantasy, G. Fasolino, Torino 1986.
J.-F. Lyotard, What is Postmodernism?, in Art in Theory 1900-2000: An Anthology of Changing Ideas, a cura di C. Harrison, P. Wood, Blackwell, Oxford 2003.
P. Pera, “Siamo stati l’ultima avanguardia! Ma nessuno ci ricorda più”. Dialogo con Giancarlo Pagliasso sull’Arte Debole, in “Pangea”, 6 Aprile 2020.
R.T. Valgenti, Convalescence (Verwindung), in The Vattimo Dictionary, a cura di S. Moro, Edinburgh University Press, Edinburgh 2023.
G. Vattimo, P.A. Rovatti, a cura di, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983.
G. Vattimo, Scritti Filosofici e Politici, La nave di Teseo, Milano 2021.