In un’aula scolastica newyorkese, precisamente nel Queens, il ritratto caricaturale del professore Turkeltaub passa da alunno a alunno, fino a finire nelle mani del diretto interessato. Le prime sequenze, filologicamente evocative, ci catapultano, come in una macchina del tempo, alla fine degli anni cinquanta a Parigi, nella classe del maestro Petite Feuille, in cui Antoine Doinel fa passare tra i compagni una cartolina raffigurante una pin-up.

James Gray dichiara immediatamente le proprie intenzioni, ammesso che lo spettatore cinefilo sia pronto a coglierle: Armageddon Time è un omaggio a François Truffaut, un movimento che ridesta le sequenze atemporali de I quattrocento colpi, cercando di rimodulare secondo le contingenze storiche, pensieri, sentimenti, disagi e ostacoli di ogni tempo.

L’armageddon time, evocato nel titolo, è un riferimento alla canzone dei The Clash, Armagideon Time; un riferimento a Ronald Reagan, che secondo il regista parlava sempre dell’Armageddon; ma è soprattutto una metafora che raffigura la storia perenne del Coming of age. Il protagonista Paul Graff è un ragazzino non eccessivamente maldestro, riflessivo, talvolta posato, nato in una famiglia borghese, dove quasi tutto gli è concesso. I suoi genitori non sono cattivi, forse un po’ distratti e scostanti dal punto di vista affettivo. Paul ha un amico, John Davis, col quale condivide corse e fughe. Le cene di famiglia, alle quali partecipa anche l’amato nonno Aaron (interpretato magistralmente da Anthony Hopkins), sono momenti di tenerezza e confronto che lasciano posto, come sempre, al sorgere di vecchie tensioni familiari.

Cosa c’è di particolare nella vita di Paul? Assolutamente nulla. Come Truffaut, anche Gray, mette in scena la tragedia di Paul, che è la stessa identica tragedia di Antoine, come di John e di René (migliore amico di Antoine ne I quattrocento colpi). Armageddon Time condivide con I quattrocento colpi l’intento di non rappresentare un caso particolare, ma un caso generale che si particolarizza nello statuto specifico dell’immagine cinematografica del regista: sono le visioni, i ricordi personali di Gray, imbevuti del cinema dei padri, a farsi forma e senso ritrovato.

Le prime sequenze di Armageddon Time esibiscono vistosamente le stesse logiche della punizione e del castigo del primo lungometraggio di Truffaut. Anche nel 1980, le istituzioni scolastiche sono rappresentate nella loro rigida fisicità, come luoghi del controllo, del giudizio e della punizione. Alla punizione gli alunni rispondono deridendo il professore e non considerando minimamente la sua autorità: i compagni di Antoine, come Paul, sfruttano che il professore sia girato di spalle per far boccacce e segni vari.

Si nota, in entrambi i casi, la discrepanza tra il mondo degli adulti e quello dei bambini: gli adulti sono esseri evanescenti, beffeggiate figure autoritarie con le quali la comunicazione è ridotta al minimo. Il vuoto comunicativo, che si prova a colmare attraverso una fitta serie di rituali, è deleterio nella fase adolescenziale che i personaggi si ritrovano a sperimentare. L’adolescenza, segnata dal bisogno di fuga, di indipendenza e di svezzamento affettivo, ha il necessario bisogno di guide morali e identificazioni. Come in altre opere a questa assimilabili, Zéro de conduite (Vigo, 1933) e Sciuscià (De Sica, 1946), è essenziale la presenza di una figura adulta realmente positiva nella quale confidare. Il nonno Aaron, fino alla sua scomparsa, è il sicuro confidente al quale appigliarsi, il rappresentante della stirpe perduta, il miglior compagno di voli spaziali.

Le canzoni cantate insieme, i racconti sulle generazioni passate, i continui regali, rappresentano nel Coming of age di Paul, il barlume di storia viva e positiva, dalla quale partire per costruire il proprio sé. Non a caso Antoine ne I quattrocento colpi copierà nel suo tema scolastico una parte dell’opera di Balzac La ricerca dell’assoluto, in cui il tema principale sarà proprio la morte del nonno. Anche Paul, come Antoine, è scoperto nella copiatura dell’opera di Kandinsky per il compito in classe.

Da un lato la scrittura, tratto emblematico dell’opera truffautiana, dall’altro il disegno: la gita al museo, in cui Paul scopre le opere di Kandinsky, introduce ciò che lo psicologo francese Maurice Debesse chiama crisi d’originalità giovanile e che da molti critici è direttamente relazionata al comportamento di Antoine Doinel ne I quattrocento colpi. Si tratta di una tappa del processo della formazione dell’idea di sé che caratterizza la preadolescenza e l’adolescenza ma che, in alcuni casi, si compie definitivamente solo in età adulta. I soggetti che vivono la crisi d’originalità sono di solito adolescenti che si interessano a ciò che riguarda la vita culturale, politica e sociale del loro tempo, provvedendo da soli alla loro educazione culturale. Per quest’ultima si intende la capacità di riflessione sulla propria cultura e su quella degli altri, attraverso la storia e le arti.

Autoeducarsi produce forme di autoconsapevolezza e di coscienza di sé, aiutando i soggetti a trovare limiti e confini che gli consentano di diventare soggetti interi. È esattamente ciò che Paul cerca di fare, proprio come Antoine: nel momento in cui le istituzioni scolastiche non sono in grado di insegnare e di stimolare realmente i ragazzi, e quando lo straripante senso di indipendenza dei soggetti crea situazioni conflittuali con i genitori, molti auto-imparano con diversi mezzi e identificandosi in figure particolari.

Il furto del computer dalla scuola è, ancora una volta, una citazione filologica dal capolavoro truffautiano: come Antoine e Renè rubano la macchina da scrivere dall’ufficio del padre, per poi essere scoperti, anche Paul e John finiscono nei guai. Il peso della macchina da scrivere, come quello del computer, è la rappresentazione tramite l’oggetto del forte desiderio di indipendenza che si scontra con le responsabilità che esso comporta.

Non si è più bambini, ma neanche adulti: si stenta a diventare grandi, ma non ci si identifica nei ruoli infantili. Se Antoine, dopo il furto, è inviato in un centro di osservazione per minori, Paul è costretto a cambiare scuola dopo aver fumato in bagno con John. Le grate che recintano l’edifico scolastico, entro le quali Paul è costretto a conversare con l’amico, sono simbolo della costrizione fisica e mentale che il ragazzo subisce e ricordano proprio le sbarre del vagone-cella con il quale Antoine è trasportato al centro d’osservazione.

L’ultimo elemento inconfondibile è il colloquio con la psicologa che Paul affronta all’arrivo nella nuova scuola: se la spiologa truffautiana resta in fuori campo, Gray mostra il controcampo, fino a ridurlo gradualmente con una carrellata in avanti. La stessa carrellata che manca al finale di Armageddon: se Antoine, nella celebre sequenza, corre verso il mare e si rivolge indietro con lo sguardo, Paul si limita a uscire dalla scuola e girare l’angolo, senza voltarsi.

Riferimenti bibliografici
M. Debesse, La crisi d’originalità giovanile, Anonima Veritas, Roma 1948.

Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse. Regia: James Gray; sceneggiatura: James Gray; fotografia: Darius Khondji; montaggio: Scott Morris; musiche: Christopher Spelman; interpreti: Banks Repetaa, Jaylin Webb, Anne Hathaway, Anthony Hopkins, Jeremy Strong; produzione: MadRiver Features, Keep Your Head Productions, RT Features; origine: Stati Uniti d’America, Brasile; durata: 115’; anno: 2022.

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