Una «petite promenade du poète» lunga un film: è Ari di Léonor Serraille, lungo la traccia (icastica, atmosferica: un crepitare granuloso, crepuscolare dell’aria, incline a crollare sulle inquietudini dei protagonisti) lasciata da Eustache, Rohmer, Garrel, senza dimenticare quell’archetipo di essenzialità della mise en scène e dello straniamento – proprio dell’essere, come assottigliato sotto il peso fremente dell’immagine, attraverso il meticoloso annullamento dell’autore e dell’espressività dell’attore – che fu Il diavolo probabilmente, ma tutti i film di Bresson, così essenzialmente e problematicamente aderenti ai soggetti: penso al vagare di Michel in Pickpocket, alla dimensione tattile in cui si muove, all’incombere del tempo, scarno, chiaroscurale, che sembra franare su questa animula come catafratta di silenzio, di erranza; quest’uomo ridotto a ombra di se stesso dalla densità, dalla densa neutralità, della messa in scena; dalla “violenta” necessità dell’inquadratura.

Insomma, su questa via sembra muoversi Ari, in concorso alla 75° Berlinale: il tatto appunto, quello di Serraille, che sembra tastare la fibra della nostalgia (di una mancanza, di un vuoto endemico, insoffribile, che fa da motore centrifugo alla storia, per una fuga che non può che essere fuga da sé), e così testare le possibilità del cinema, facendone spazio di sedimentazione atmosferica, crepuscolare, in cui la luce fa grondare di malinconia le cose, o è la malinconia in quanto chiave di volta della «macchina mondiale», dell’immagine, a farle grondare di luce, di musica, un motivo triste di chitarra, soprattutto nella prima, straordinaria, parte del film (poi questo soggetto sfibrato, intriso di luce cadente, sembra come normalizzarsi un po’, e le sequenze paiono perdere di un po’ di poesia).

È cinema come testimonianza dell’impressionarsi della luce sulla pellicola – fantasmi su fantasmi, lemuri arrivati dallo spazio tenebroso al di là dello spazio, che la luce magari ci mostra come germi pullulanti scrutati al microscopio –, processo fotografico che vede emergere poco alla volta i contorni del fogliame, quelli di un volto dagli occhi glauchi, i vaghi vapori di un cielo, slavato poi da un accordo triste, il mondo che corre dal finestrino del metrò. Tutto un film di contesti, di spazi malinconici, cioè cinematografici: dicevo, appunto, Bresson, Garrel, ecc.: per certi versi si potrebbe pensare al cinema più recente di Alice Rohrwacher, ma lì la luce ha qualcosa di antiquario, di magico, di allegorico; qui è semplicemente il piano di esistenza di un “poeta”, che ne mostra – per crepuscoli e riflessi – la fatica, i rimpianti, le nevrosi.

Un cinema in cui si respira il crepuscolo in quanto patina di tutte le cose, un velo luminoso, un pulviscolo, fibre di niente fertile, nel bagliore basculante da una finestra, nell’aria creata, aranciata dalle corde di una chitarra. E viene immediato il paragone con un altro film del concorso, What Marielle Knows, apoteosi borghese (e, ancora peggio, apologia di una borghesia ipocrita, crapulona), tripudio di arredamenti tersi, ordinati, opulenti, e di suv laccati, rivestiti di morbido pellame, quelli che richiudendo lo sportello ti accolgono con un rumore sordo, soffice, la blandizie del “prodotto”, e un odore di nuovo, di eternamente nuovo (silici, plastiche, resine espanse nel vano), privo di usura, di passato, tutt’altro che chiudere lo sportello di una A112 o di una 127, con clangore di ferraglia, di lama arrugginita.

Ecco, Ari è un film rugginoso, rivestito di passato, un film analogico, che porta addosso la polvere, anzi il pulviscolo del tempo, la filigrana tramontante dell’immagine (cioè la coscienza che l’immagine ha di essere effimera, sottoposta a catastrofe, e che si traduce icasticamente nella luce del tramonto) entro cui si dipana l’erranza di questo “poeta”, maestro di scuola elementare, in crisi esistenziale, per giunta messo fuori casa dal padre. Mentre andrà randagio, alluvionato, per la città, riallacciando i rapporti con i vecchi amici, recitando tra sé, cioè nelle pieghe dell’immagine Les Saltimbanques di Apollinaire:

Dans la plaine les baladins/ S’éloignent au long des jardins/ Devant l’huis des auberges grises/ Par les villages sans églises.// Et les enfants s’en vont devant/ Les autres suivent en rêvant/ Chaque arbre fruitier se résigne/ Quand de très loin ils lui font signe.// Ils ont des poids ronds ou carrés// Des tambours, des cerceaux dorés/ L’ours et le singe, animaux sages/ Quêtent des sous sur leur passage), ritroverà Irène e le scorie, i frutti del suo passato. 

Da lì, forse, sarà più dolce vivere.

Ari. Regia: Léonor Serraille; sceneggiatura: Léonor Serraille; fotografia: Sébastien Buchmann; montaggio: Clémence Carré; produzione: Geko Films, Blue Monday Productions, Wrong Men; origine: Francia, Belgio; durata: 88′; anno: 2025.

Tags     Léonor Serraille
Share