Archivi viventi
«C’erano delle bestioline interessanti e curiose nel deserto adattate ad una vita un po’ differente dalle nostre».
9 agosto 1985, campagna veneta. Freya Stark ha 96 anni e ci attende sul terrazzo di casa.
Aveva conosciuto Lawrence d’Arabia. Teneva tra le mani piccole sculture di bronzo trovate nelle tombe del Luristan, viaggiava da sola, fotografava, disegnava mappe, continuava un lavoro interrotto da un cartografo inglese nel 1923, per conto del governo inglese. […]
Archivi insostenibili. Sull’odore del garofano
Estate del 1976 a Torino, nel museo di criminologia di Cesare Lombroso. Riprendiamo gli oggetti della sua raccolta. Esplorazione ossessiva dei comportamenti umani di Cesare Lombroso collezionista di corpi di criminali e di “pazzi”. Sua criminalizzazione delle piante e degli animali, degli insetti. Come gesto estremo egli impose che il suo stesso corpo fosse conservato ed esposto in una teca del “museo”. […]
Archivi di film. Arthur Rimbaud: “Mi si imbianca un capello al minuto” (Lettere dall’Abissinia)
2005, primavera, (per un editore) ritorniamo su materiali riguardanti l’Etiopia: Abissinia coloniale italiana. Di recente in un archivio privato cinematografico frughiamo tra i fotogrammi del colonialismo italiano; studiandoli con una lente, trascrivendo le didascalie. I materiali in formato ridotto avevano l’intento di essere visti tra le pareti domestiche, in silenzio, anche se si era già in epoca sonora.
In questi brani cinematografici si possono notare inoltre, guardandoli a mano, senza un proiettore, i segni di coloro che avevano posseduto i film, le parti sulle quali più volte erano ritornati.
L’erotismo coloniale. Il corpo nudo delle donne ed il “corpo” del film, graffiato, lacerato da innumerevoli visioni. Una doppia lettura la nostra, quella delle immagini ed il modo in cui erano state consumate. Donna etiope inginocchiata con veste aperta sul seno e colono barbuto che le insapona simbolicamente la testa. […]
Karagoez. Il gioco delle ombre
Potrebbe essere stata la prima o l’ultima camera; la camera o macchina della memoria. Essa riscrive il cinema cominciando dall’inizio. Il film copia se stesso, si riprende allo specchio, con l’autoscatto. Si osserva, si scruta verticalmente, getta su colui che ama, in segreto, un lungo sguardo di struggimento. È una macchina pensosa, che classifica, associa, che costruisce un catalogo di varianti (apocrife) delle immagini. Sofferma la sua attenzione sui particolari, scegliendo o ingrandendo quegli oggetti parziali che esistono per lei all’interno di una fotografia trasparente, di un fotogramma. Nel ridare l’immagine non si cura del tempo operativo, dello scorrimento, ritardando, dilatando il tempo dell’osservazione ai limiti della percezione del movimento offre il modo di sapere. Veri fotogrammi come interi archivi, collezioni di fotografie. Noi trattiamo il carattere malinconico e quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto. […]
«NON ESISTE LA NOSTALGIA, ESISTE IL PRESENTE»
Conversazione con Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi
Questi testi che aprono la conversazione sono un esempio di un altro modo di catalogare e di montare, cioè il linguaggio delle associazioni. Noi abbiamo lavorato seguendo un percorso di associazioni visive.
Ma che si sviluppa anche attraverso un lavoro testuale, svolto parallelamente a quello sui materiali, ed è un lavoro che avete portato avanti nel corso della vostra attività di cineasti per oltre trent’anni. Un lavoro in cui il cinema si sviluppa a partire dalla ricerca e dalla possibilità di rifilmare gli archivi. Il testo da cui stiamo partendo è una riflessione ed una testimonianza di ciò.
Sì, ed è anche un diario di lavoro. Il nostro lavoro è accompagnato da una scrittura parallela sulle immagini, in quaderni che riportano la lunghezza della sequenza, oppure delle note con indicazioni su che cosa ingrandire o ancora delle note su ciò che abbiamo visto, sul dettaglio che ci interessa. L’ultimo testo che apre la conversazione è un testo poetico, legato al nostro film Catalogo 9.5 Karagoez. Quest’ultimo testo era infatti il testo del primo film sull’Archivio, forse il nostro film più legato a Benjamin e a Warburg, che allora non erano molto conosciuti come adesso, ed è un film su cui abbiamo lavorato molto, dal 1978 al 1981.
In che senso Benjamin e Warburg sono legati al lavoro sull’archivio di Karagoez?
Perché noi stavamo lavorando all’idea di un film sulle associazioni e i rimandi, tra documentario e finzione, ed era un lavoro sui gesti, sui corpi e sui dettagli. […]
Come si determina la dimensione temporale dell’immagine? Come nasce? È qualcosa che l’immagine o l’oggetto archiviato e archiviabile lasciano emergere nell’incontro con voi (o di voi con l’oggetto), oppure il processo è più complesso?
È un processo che è sempre variabile. È un processo che ha un punto di partenza che è quello dell’osservazione manuale, e però è dato dalla natura dell’immagine, da quella scossa elettrica che l’immagine ci provoca. La durata è in relazione a questo, alla lunghezza che noi vogliamo far vedere. E non è mai sbagliata poi nel montaggio, perché è già montata, è già montata filmandola. L’esempio più banale è l’immagine troppo breve, quasi subliminale, che talvolta vogliamo mettere in luce. La morte di un soldato, che cade e muore in tre fotogrammi, per esempio. Oppure i fotogrammi singoli ripresi, in certi film scientifici sulla crescita dei fiori, per esempio. Questi sono gli esempi più emblematici. E poi la durata anche di quegli elementi che sono sfuggenti e che sono ai bordi dell’immagine, l’occhio in genere si fissa nella zona centrale, cioè non guarda mai i lati, i limiti delle immagini. Allora ci interessa talvolta mostrare quello che rifugge dall’occhio. Il nostro modo analitico è un modo molto manuale di guardare, di osservare in trasparenza l’immagine… […]
Forse questo tempo odierno è proprio la vittoria totale dell’archivio: l’immagine in cui nasce è già archiviata e archiviabile.
A noi interessa dare un senso a quello che vediamo negli archivi, il nostro è un archivio astratto, “apocrifo”. È una raccolta di visioni alterate, rilette al presente. Questo all’inizio, in un film come Karagoez. È da lì che è cominciato il nostro lavoro sulla camera analitica che poi prenderà altre direzioni, cioè diventa cosciente della storia, abbandona la finzione, soprattutto. Karagoez è una mescolanza tra documentario, finzione, fiaba, racconto, diversi generi. La scienza, anche. Abbandona la fiction, come dicevo, anche se però mantiene la coscienza delle epoche dell’Espressionismo tedesco, dell’Impressionismo francese, del cinema atletico italiano del primo dopoguerra. Era costruito con un numero veramente ampio di film: c’erano anche i film del protonazismo con Leni Riefenstahl, oppure i film dell’Impressionismo vero e proprio, tipo Varieté di Dupont. Era veramente interessante, perchè c’erano anche gli esuli russi in Francia come Mozzuchin. Ecco, in Karagoez abbiamo ripetuto l’esperimento di Kulešov, che per noi era molto importante, un esperimento che si ripeteva in differenti situazioni o anche in differenti epoche cinematografiche, e stili cinematografici.
C’era un film di Guazzoni, c’era L’argent di L’Herbier. Una grande quantità di documentari primitivi, dove abbiamo scoperto l’esotismo che nascondeva il colonialismo, e da lì nasce l’idea di Dal Polo all’Equatore, che rappresenta questo salto dalla finzione al documentario, alla violenza. E per finire – per tornare alla tua domanda sul tempo e sul fotogramma – ci interessavano anche, all’inizio, i segni lasciati sulla pellicola dai primi possessori di questi film, che spesso erano visti a casa. Perciò c’erano queste bruciature, queste scottature dovute all’arresto della pellicola davanti alla lampada incandescente. E succedeva soprattutto sulle scene erotiche, nel cinema erotico o anche pornografico. Abbiamo usato proprio questi segni in un film che si chiama Essence d’absinthe dove c’è l’uso del corpo femminile, visto e rivisto centinaia di volte, i segni lasciati dalle graffiature del fotogramma, tanto che quasi nascondevano i corpi femminili, e rendevano quasi pudiche queste immagini… […]
Anche per questo la camera analitica è anche un modo per rispettare la delicatezza del materiale, per farla scorrere manualmente, per non rovinarla…
Per non strapparla, per non lacerare ulteriormente questo materiale. In molti film mostriamo questo decadimento fisico della pellicola. In Dal Polo all’Equatore c’è una sezione dell’Abissinia ripresa da Portoghesi, dove si vede una sfilata gioiosa che termina in una muffa bianca. È interessante questo segno del tempo. È anche nella parte finale, la Prima guerra mondiale, sulle Alpi. E ancora nella parte dei negativi originali, usati in Su tutte le vette è pace, immagini di Luca Comerio. Anche quelli sono materiali in stato di decomposizione. […]
Anche attraverso ciò che si perde. In un certo senso c’è un lavoro politicamente molto forte non solo sull’erosione materiale dell’immagine, ma anche sull’erosione politica che queste immagini hanno subito quando sono state girate. Le immagini, ad esempio, di Prigionieri della guerra: lì c’è un lavoro che rivela proprio attraverso ciò che nell’immagine invece è velato, nascosto e, apparentemente, ordinato in un altro modo. È come se queste immagini, proprio nel momento in cui decadono, attraverso uno sguardo che fa in modo che ciò accada – cioè il vostro –, riescono invece a rivelare molto. Sfuggono all’oblio.
Talvolta dicono che le nostre immagini sono estetiche, però noi diciamo che le nostre immagini estetiche sono immagini fortemente etiche. L’etico e l’estetico per noi marciano insieme. Rifilmare vuol dire “risignificare”. Questo è il punto. Svelare l’ideologia della Storia nel materiale documentario pubblico e privato, la forza dell’immagine mostrarla senza parole senza commento, in forma mai didattica. Immagini dimenticate riportarle alla visione di oggi. Costringiamo a pensare a collegare ieri e oggi a fare associazioni. Svelare la violenza nei suoi vari aspetti. […]