di RICCARDO CASTELLANA
Appunti sulla nuova biografia letteraria.
Che la biografia letteraria sia tornata in auge in Italia lo dimostra il successo di alcuni libri usciti ultimi anni, come i due vincitori dello Strega nel 2018 (La ragazza con la Leica, Einaudi, 2017, di Helena Janeczek) e nel 2019 (M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, Bompiani, 2018), e altri più recenti di cui si continua a parlare molto, come Due vite di Emanuele Trevi (Neri Pozza, 2020), La natura è innocente. Due vite quasi vere di Walter Siti (Rizzoli, 2020), Città sommersa di Marta Barone (Bompiani, 2020) e Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostojevskij di Paolo Nori (Mondadori, 2021). Ma cos’è esattamente una biografia letteraria? In realtà molte cose diverse. M. è (dice il suo autore) un «romanzo documentario» su Benito Mussolini, e anche Città sommersa è presentato, sin dalla copertina, come “romanzo”. Di “romanzo” parla a più riprese Paolo Nori nei frequentissimi passaggi metanarrativi di Sanguina ancora, la sua biografia di Dostoevskij, mentre Siti parla di La natura è innocente come di un «ritratto letterario» (Siti 2020, p. 68) e di una «biografia romanzata» (ivi, p. 347). In diverso modo, dunque, viene chiamata in causa quella componente essenziale della scrittura romanzesca che è la finzione narrativa. Ma è davvero così? Questi romanzi sono anche finzioni biografiche (o biofiction)?
Prima di rispondere a questa domanda, andrà valutata anche la questione del “diritto alla biografia” (Juri Lotman): chi è, oggi, l’oggetto potenziale di una biografia (e di una biografia letteraria in particolare)? Se di uno scrittore universalmente noto come Dostoevskij è legittimo postulare un “diritto alla biografia” per così dire a priori, Trevi racconta invece le vite di due scrittori molto meno noti (Rocco Carbone e Pia Pera), mentre Barone e Siti concentrano la loro attenzione su emeriti sconosciuti, la cui vita è però considerata degna, per opposte ragioni, di essere raccontata: Barone ricostruisce la vicenda del padre Leonardo, esponente della sinistra extraparlamentare negli anni della contestazione; Siti le vite parallele e «amorali» del matricida Filippo Addamo e di Ruggero Freddi, pornoattore gay, escort, vedovo quarantenne di un facoltoso principe romano e, infine, anche tutor universitario di Analisi matematica alla Sapienza di Roma (la tragedia di Oreste e di Edipo da un lato e la fiaba a lieto fine dall’altro, ivi, p. 331). Se in Città sommersa anche una vittima non riconosciuta della storia come Leonardo Barone può maturare il diritto alla biografia, in La natura è innocente c’è una vistosa componente criminosa oppure scandalistica. Il che non impedisce peraltro l’individuazione di una qualche universalità nella parabola individuale degli “amorali” Filippo e Ruggero, i quali (secondo Siti) non farebbero che reagire al lacaniano imperativo al godimento che caratterizza la nostra epoca, priva di senso etico (realizzerebbero insomma, attraverso il crimine o una condotta di vita senza limiti, il desiderio di tutti, e certamente quello dell’autore).
Ma dicevamo della finzione: in che misura è una componente essenziale di questi romanzi biografici? Si va, direi, dagli estremi di M., La ragazza con la Leica e La natura è innocente, dove la componente finzionale è notevole, a quello di Sanguina ancora e di Due vite, dove essa è invece trascurabile se non del tutto assente. Sul primo versante, mentre per es. il «romanzo documentario» di Scurati adotta gli espedienti tradizionali della biografia romanzata (descrizioni dettagliate di ambienti, dialoghi inventati, ricostruzione dei pensieri dei personaggi tramite l’indiretto libero), ma lo fa senza mai derogare allo scrupolo storiografico, che resta l’intento principale del libro: non a caso alla narrazione finzionale sono continuamente giustapposti documenti reali (un po’ in stile Wu Ming), a garanzia che quanto viene raccontato è storicamente plausibile. Non diversamente, anche se con maggior impegno stilistico, fa Janeczek. La finzione diventa così, soprattutto per Scurati, strumento di divulgazione storica: il lettore è invitato a immedesimarsi negli eventi e a viverli, e a questo contribuisce anche lo stile trasparente e mai opaco di Scurati, che predilige la paratassi e la frase nominale, la nominazione secca (e spesso anche un po’ piatta) degli eventi.
Per Siti invece «il romanzo verità» è una chimera: «la verità ha a che fare con la scienza e la giurisprudenza, non con la letteratura né con la vita, […] si mente narrando come si mente vivendo» (ivi, p. 17). Mentire, in letteratura, significa integrare le lacune con «immaginazioni coerenti» (ivi, p. 346). Significa non solo inventare fatti mai accaduti ma anche fingere di rappresentare i pensieri e i sentimenti degli altri, fingere di entrare dentro le loro teste e scoprire cos’è che pensano veramente, al di là delle parole e dei gesti (che è poi il proprium della finzione narrativa rispetto a quella cinematografica, e quindi della biofiction letteraria rispetto al biopic). Così, molti dialoghi sono chiaramente inventati (quello tra Filippo e il suo avvocato, ivi, pp. 180-181), molti dettagli certamente falsi (la descrizione del villino di via Veneto attribuita a Ruggero, ivi, p. 229-30) e le mail del principe Fieschi sono, per ammissione stessa dell’autore, «reinventante romanzescamente» (ivi, p. 246). Ma Siti ricorre soprattutto al più antico espediente finzionale, che è la messa a nudo dei pensieri nascosti dei personaggi, come, già a p. 22, quando “entra” nella mente di Rosa, immaginandone le emozioni nel vedere i primi passi del figlio, oppure più avanti, quando immagina il montare del desiderio di Rosa per Benedetto (ivi, pp. 45, 89-90). E si noti: i pensieri immaginati appartengono per lo più a chi non è più vivo per raccontarli a qualcuno (i rarissimi brani di questo tipo contenuti in Città sommersa assolvono alla stessa funzione: quando Marta non può ricostruire i pensieri del padre ricorre anche lei alla fiction, anche se lo fa in modo molto più moderato e pudico di Siti).
Sull’altro versante, al contrario, nessun episodio è ricostruito in modo fittizio, e mai né Nori né Trevi pretendono di “mettere a nudo” l’anima del biografato forzando la realtà biografica o colmando con l’invenzione narrativa le lacune documentarie. Di romanzesco, in Nori, c’è piuttosto (se la si vuole chiamare così) la componente soggettiva, o per meglio dire la presenza concreta dell’autore nel romanzo, che continuamente alterna la biografia vera e propria (di Dostevskij) all’autobiografia dell’autore, con momenti di quella che Andrea Rondini ha chiamato “autobiocritica” e, sul piano dello stile, con alcuni begli esempi di imitazione creativa della sintassi e del lessico parlato. Per Trevi conta anche, oltre alla contaminazione tra autobiografia e saggismo letterario, il legame affettivo che lo lega ai due amici scomparsi, e la centralità della voce narrante diventa il necessario collante del racconto, il filo di sutura che unisce due parabole esistenziali e dà loro un senso, salvandole nella memoria.
Concludo con due osservazioni: una sulla struttura e una sull’esemplarità della biografia letteraria ipercontemporanea. Sul piano strutturale, vale la pena riflettere sull’espediente della narrazione parallela adottato da alcune biografie letterarie degli ultimi anni: non solo quelle di Trevi e di Siti, ma anche altre (ho in mente almeno un paio di precedenti italiani, come Si parla troppo di silenzio. Un incontro immaginario tra Edward Hopper e Raymond Carver, 2012, di Aldo Nove, e Il tempo migliore della nostra vita, 2015, di Antonio Scurati). Il modulo deriva, come è ovvio, da Plutarco, ed è quello della messa a confronto di due biografie eroiche: nelle Vite parallele c’è una serialità che consiste nel ripetere per ventidue volte lo stesso schema (nel proemio sono esposte le premesse della comparazione, segue la narrazione cronologica della vita dell’eroe greco, poi quella della vita del romano, quindi, nel paragone finale, si evidenziano di solito le analogie ma soprattutto le differenze tra i due caratteri). Tuttavia, nei nostri romanzi la comparazione tra le due vite avviene in modo diverso, ben esemplificato del caso di Siti: nel primo capitolo si propone un certo pattern narrativo (nella fattispecie, il racconto dell’infanzia di Filippo), che viene poi replicato nel secondo capitolo con la narrazione dell’infanzia dell’altro protagonista (Ruggero); e così via, fino al raggiungimento dei quarant’anni di entrambi, per otto capitoli (più un prologo, un intermezzo e un epilogo). In Siti il parallelismo (l’elemento seriale) è quindi un po’ diverso da Plutarco, come ben si vede dal Sommario del libro, che alterna gli stessi due titoli, ripetuti ogni volta con l’aggiunta di un numero progressivo:
Via del teatro greco I
La principessa del drago I
Via del teatro greco II
La principessa del drago II
…
(“Via del teatro greco”, che è una strada di Catania, allude alla matrice tragica della storia di Filippo, mentre “La principessa del drago” alla fiaba di Ruggero Freddi). Questa variazione rispetto alla struttura plutarchea (questa serialità che potremmo forse chiamare “duale”) consente almeno due vantaggi. Il primo è quello, comune anche al seriale televisivo, del differimento: per conoscere gli sviluppi della vicenda di Filippo devo attendere l’episodio successivo, prestando ascolto, nel frattempo, alla storia di Ruggero. In questo modo il piacere dello scioglimento è dilazionato, differito. Il secondo vantaggio è che, grazie alla sola dispositio (al “montaggio”), Siti riesce a istituire molti parallelismi tra le due vicende, invitando il lettore a individuare da sé analogie (la povertà, il disagio sociale e famigliare) e differenze (l’attaccamento edipico di Filippo per la madre, che lui ucciderà dopo che lei scappa di casa con un altro per rivendicare il proprio diritto al piacere; lo schifo di Ruggero per la propria madre, e la favola che corona il suo sogno di arrampicatore sociale). Come Plutarco, cui Siti strizza l’occhio costantemente, nell’Epilogo il narratore riassume, in una sorta di synthesis, affinità e differenze tra le due parabole biografiche, estrapolando da queste due vite amorali una verità universale.
Giungo qui all’ultimo punto: l’esemplarità. La concessione del diritto alla biografia a individui immorali o amorali non è una novità ipermoderna. Vi è anzi una lunga tradizione che comincia con il libro di fondazione della biofiction moderna, ovvero le Vite immaginarie (1896) di Marcel Schwob, di cui è da poco uscita una nuova traduzione per Feltrinelli di Luca Salvatore con una mia postfazione in cui ricostruisco l’eredità di Schwob nel Novecento: si pensi alla Storia universale dell’infamia di Borges, a La sinagoga degli iconoclasti, di Juan Rodolfo Wilcock o all’Enciclopedia dei morti di Danilo Kiš. Da tempo, dunque, i modelli di biografia eroica hanno vita difficile, anche se Siti, va detto, spinge molto di più sul pedale dell’immoralismo, non limitandosi a raccontare l’immoralità altrui, ma ostentando anche la propria (Filippo, scrive il narratore-autore, «ha ucciso la madre, lui almeno ce l’ha fatta», ivi, p. 260; «Non capisco […] in che cosa la morte di un bambino possa considerarsi più notevole della morte di un adulto», ivi, p. 332).
Salvo questo elemento, va detto tuttavia che anche la biofiction ipermoderna rispetta, nella sostanza, le convenzioni di genere stabilite da Schwob nel suo capolavoro, perché è a partire dalle Vite immaginarie che la finzione si insinua nel resoconto fattuale, che l’immaginazione si intreccia al documento e alle fonti: è Schwob a inaugurare un modo di narrazione biografica capace di servirsi che ricostruisce ora episodi palesemente inventati ora la vita interiore dei biografati. Perché lo fa? Perché, come spiega lui stesso nella prefazione il compito del biografo non è quello di perseguire la verità storica ma rendere un carattere, un ethos particolare e unico: se però questo carattere non lo si riesce a definire tramite l’esame dei documenti e l’esatta ricognizione di quanto è accaduto, allora lo scrittore deve sentirsi legittimato a inventare. E se ci pensiamo bene, questa svolta impressa da Schwob alla biografia va nella stessa direzione presa dal romanzo moderno: sempre meno racconto di “tipi” (morali o sociali), e sempre più narrazione di singolarità, sempre più, insomma, storia di nomi propri.
Riferimenti bibliografici
AA.VV., Racconti di una vita. La narrazione biografica breve nella tradizione contemporanea, a cura di Giacomo Raccis e Damiano Sinfonico, “Nuova Corrente”, n. 162, anno LXV, Interlinea edizioni, luglio-dicembre 2018.
R. Castellana, Finzioni biografiche. Teoria e storia di un genere ibrido, Carocci, Roma 2019.
Id., L’eredità di Schwob e il genere della finzione biografica, in M. Schwob, Vite immaginarie, a cura di Luca Salvatore, Feltrinelli, Milano 2020.
Juri M. Lotman, Il diritto alla biografia. Il rapporto tipologico fra il testo e la personalità dell’autore, in Id., La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, a cura di S. Salvestroni, Marsilio, Venezia 1985.
Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, il Mulino, Bologna 2011.
Andrea Rondini, Autobiocritiche nella letteratura italiana contemporanea, “Bollettino ‘900”, n. 1-2, Giugno-dicembre 2013.
W. Siti, La natura è innocente. Due vite quasi vere, Rizzoli, Milano 2020.
Potreste sforzarvi di leggere i libri che recensite con maggiore attenzione. Io, Ruggero Freddi, sono professore di ANALISI a La Sapienza, non tutor cone dire voi. Strano che in molti, come voi, mi hanno appioppato un titolo accademico inferiore rispetto quello che mi spetta ma che nessuno “per errore” mi abbia attribuito un titolo maggiore. Inoltre, dite erroneamente che la descrizione del villino di via Veneto sia stata inventata o romanzata quando la descrizione è molto aderente alla realtà. Per aiutarmi nella descrizione mostrai anche delle foto a Walter e andammo assieme a visitare almeno l’esterno del villino in questione. Questo dimostra ancora una volta che vi dilungare in descrizioni di cose che non conoscete. Fossi in voi mi limiterei a leggere il libro e a dirci se vi è piaciuto o no perché molto del resto che avete scritto è approssimativo se non sbagliato.