Una decina di anni fa (avevano già aperto il National September 11 Memorial, ma non ancora il Museum) ho partecipato a una visita guidata al sito dell’attentato alle torri gemelle. La visita faceva parte delle attività organizzate dall’associazione World Trade Center Survivors’ Network, e la guida era appunto uno dei sopravvissuti all’attentato. Un affabile signore sulla quarantina dal fisico atletico e leggermente brizzolato ci ha accompagnato in giro per Ground Zero raccontandoci le diverse fasi dell’attentato, e come lui stesso le aveva vissute (era uno dei “disobbedienti” che, ignorando gli insistenti inviti a non utilizzare le scale della seconda torre, si era fiondato giù riuscendo a mettersi in salvo prima del crollo). Quando gli ho chiesto quale fosse stato il momento più angosciante della giornata mi ha dato una risposta un po’ spiazzante: la parte più stressante è arrivata la sera quando, calata l’adrenalina, ha cercato di fare ritorno a casa (vive nel New Jersey): il traffico impazzito, i trasporti pubblici fuori controllo e la rete dei cellulari in tilt hanno reso il ritorno un infinito viaggio al termine della notte.

Questo episodio mi è tornato in mente spesso in questi anni. Il viaggio dell’uomo nella sera newyorchese, insieme a migliaia di concittadini ancora scioccati ma già in qualche modo impegnati a ripristinare il contatto con una realtà del tutto estranea e inospitale, mi è sembrata la metafora più calzante per leggere il “dopo” 11 settembre: quel periodo iniziato venti anni fa e che stiamo ancora vivendo. Mi è tornato in mente ogni volta che vedevo film o leggevo romanzi sull’argomento (L’uomo che cade, di De Lillo, parla in sostanza di questo). E mi viene in mente ogni volta che mi capita di tornare sulla questione del postmoderno e della sua vera o presunta conclusione. Come è noto, alcuni osservatori hanno immediatamente letto l’11 settembre 2001 come la data che segna la fine del postmoderno. Parafrasando Charles Jencks, potremmo dire che il postmoderno nasce e finisce con due crolli speculari: quello del complesso residenziale Pruitt-Igoe, costruito nel 1951 a Saint Louis secondo i più stretti e progressivi dettami di Le Corbuiser, e spettacolarmente abbattuto con alcune cariche di dinamite alle ore 15:32 del 15 luglio 1972; e quello delle torri gemelle newyorchesi dell’11 settembre 2001: la seconda torre crolla alle 10:27. Il postmoderno sarebbe durato 29 anni, 64 giorni, 18 ore e 55 minuti. Se pensiamo che le due torri erano state inaugurate rispettivamente nel 1970 e nel 1971, la loro convivenza con il postmoderno si fa quasi perfetta.

In effetti le cose non sono così semplici. Certo, già il 24 settembre 2001, dopo meno di due settimane dall’attentato, Roger Rosenblatt affermava su Time che «The Age Of Irony Comes To An End», e presagiva quel ritorno della realtà e del realismo che avrebbe segnato la “nuova sincerità” degli anni a venire. Altri hanno tuttavia difeso la persistenza del superamento della modernità: l’11 settembre sarebbe anzi una sorta di epitome del postmoderno. Su questa linea Jean Baudrillard (che scriveva nel novembre dello stesso anno su “Le Monde”): secondo il filosofo francese l’attentato dà forma a quella pulsione all’autodistruzione dell’Occidente che si ritrova in tanti disaster movies: «In questo film catastrofico di Manhattan, si uniscono al punto più alto i due elementi di fascinazione di massa del XX secolo: […] la luce bianca dell’immagine [cinematografica] e la luce nera del terrorismo» (Baudrillard 2002). Altri ancora hanno cercato posizioni di mediazione: per esempio secondo Slavoj Žižek (che anticipava sul sito Lacan.com in luglio un saggio pubblicato in volume l’anno successivo) l’evento dell’11 settembre ha rivelato la profonda falsità della «passione per il reale» (l’espressione è di Alain Badiou) del XX secolo, e della stessa opposizione tra reale e apparenza su cui implicitamente si basava il postmoderno:

Il Reale che ritorna ha la forma di un’(altra) apparenza: proprio perché è Reale, cioè per via del suo carattere traumatico/eccessivo, siamo incapaci di integrarlo in (ciò che sperimentiamo come) la nostra realtà, e siamo quindi obbligati a percepirlo come un’apparizione angosciante, come un incubo. Questo è stata l’immagine irresistibile del collasso delle torri del WTC: un’immagine, un’apparenza, un “effetto” che, al tempo stesso, trasmetteva “la cosa in sé” (Žižek 2017).

In ogni caso non c’è dubbio che l’11 settembre costituisce un momento fondamentale di ripensamento e forse di superamento del postmoderno, con l’avvio di tutte quelle tendenze (dal metamodern al digimodern, dall’altermodern al neomodern, ma la lista è molto lunga) che ripropongono a vario titolo all’arte e alla teoria una esigenza di serietà, di fiducia, di realismo, e soprattutto di impegno etico, sociale e politico rispetto al nuovo capitalismo digitale e alle forme politiche che lo sostengono. Questo dibattito (che non ho nemmeno fatto finta di ricostruire) coglie a mio avviso alcuni aspetti di quello che è successo nel lungo viaggio notturno partito da Ground Zero, ma non riesce a intravederne altri, che sono a mio avviso essenziali. Certo, il dibattito coglie che l’11 settembre ha cambiato qualcosa nel nostro rapporto con le immagini e con il reale, e lo ha cambiato per sempre. Si tratta di trasformazioni non immediatamente legate all’evento dell’attacco alle torri gemelle, ma di portata più ampia: l’impatto degli aerei ha fatto deflagrare questioni che hanno radici e ragioni più complesse e profonde. Infine, questa deflagrazione di qualcosa di nuovo nel nostro rapporto con immagini e realtà è legata all’apparire, anzi all’irrompere di qualcosa nella nostra vita quotidiana. Ma cosa ha fatto irruzione nelle nostre vite in modo tale da trasformare il nostro rapporto con le immagini e fornendo loro una inedita affidabilità? Io penso che la risposta stia nel nuovo statuto digitale delle immagini.

Gli anni Novanta avevano costituito il momento di sviluppo delle tecnologie hardware (i sensori) e software (gli standard di compressione) che consentivano di passare dalla immagine elettronica a quella digitale. Fino a quel momento, tuttavia, la distinzione tra i due tipi di immagine non veniva percepita chiaramente: anzi, le aziende tendevano a equiparare le une e le altre. L’11 settembre fa esplodere il potenziale innovativo di questa distinzione. L’immagine digitale abbandona per sempre il principio della impronta, che aveva caratterizzato fotografia, cinema e immagine elettronica. L’immagine viene ora attratta nel campo più vasto del data management: le particelle e le onde dello spettro elettromagnetico vengono tradotte in tempo reale in modelli matematici manipolabili che possono a loro volta essere ritradotti in fotoni. Se le tecno-immagini che seguivano il modello della impronta potevano giocare sul principio di apparizione di una porzione di realtà nel momento del loro ritorno nel mondo, le immagini digitali giocano su un principio differente: quello della visualizzazione di un data set. Le immagini dell’11 settembre non mostrano dunque né l’irruzione dell’apparenza né l’irruzione del reale nelle nostre vite: esse prefigurano l’irrompere dei modelli algoritmici che le immagini visualizzano e rendono in tal modo presenti e operanti nel mondo che anche noi abitiamo.

A partire di qui si può sostenere credo che l’impossibilità di non credere alle immagini digitali dell’attacco alle torri gemelle abbia contribuito a fondare un nuovo regime di fiducia nelle immagini basato appunto sulla loro natura digitale: l’11 settembre ci ha portato a credere alle immagini in forma nuova; ha spazzato via la lunga tradizione della fiducia nelle epifanie e nei lampi rivelatori delle immagini otto-novecentesche – con tutte le ambiguità, le parzialità, le soggettività che queste implicavano – e ci ha insegnato a credere non più alla fragilità effimera delle immagini ma alla solidità e all’aggiornamento costante dei modelli di dati che esse visualizzano. Il viaggio intrapreso dai commuters la sera dell’11 settembre 2001, e da noi tutti con loro, non è dunque un viaggio oltre il postmoderno e neppure un nostos verso il moderno. Questo percorso innescato dall’attentato alle torri gemelle e dalle immagini che ne hanno diffuso gli andamenti è il passaggio da una vecchia a una nuova economia della luce: da una economia in cui la luce si fa immagine e fa l’immagine a una in cui la luce si trasforma in dati, e i dati possono essere tradotti in immagini. L’essere costretti a chiederci se queste operazioni ci evitino un confronto con il mondo (con le sue sgradevolezze, le sue imprevedibilità, le sue astuzie, le sue ansie) oppure ci spingano ad esso è il lascito più importante di una data difficile.

Riferimenti bibliografici
J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina, Milano 2002.
D. De Lillo, L’uomo che cade, Einaudi, Torino 2008.
R. Eugeni, Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno), Morcelliana-Scholé, Brescia 2021.
C. Jencks, The Language of Post-Modern Architecture, Rizzoli International, New York 1977.
L. Malavasi, Postmoderno e cinema. Nuove prospettive d’analisi, Carocci, Roma 2017.
D. Rudrum, N. Stavris, a cura di, Supplanting the Postmodern. An Anthology of Writings on the Arts and Culture of the Early 21st Century, Bloomsbury, New York-London 2015.
S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale. 5 saggi sull’11 settembre e date simili, Meltemi, Milano 2017.

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