In un celebre saggio del 1984, Le Antigoni, George Steiner, riferendosi a una ricchissima e variegata tradizione interpretativa ottocentesca, considera la tragedia di Sofocle un avvenimento unico nella storia del pensiero occidentale. La straordinaria capacità dei miti greci, e dell’Antigone in particolare, di riprodurre l’intera gamma delle categorie del conflitto, che definiscono l’uomo nella sua essenziale dimensione relazionale, permette al testo sofocleo di stimolare ripetutamente la storia del pensiero e dell’arte, facendo dell’opera tragica una fonte sempre aperta a nuove esigenze ermeneutiche.
Dunque, Le Antigoni di Steiner sottintende una tesi che fa dell’opera di Sofocle un testo che ha la capacità di offrirsi a differenti paradigmi filosofici come campo problematico ideale e ad una visione “angolare e selettiva” (Steiner 2014, p. 311). Ma le cose non sono così semplici. Ad esempio, in una recente intervista a cura di Pierandrea Amato e Dario Cecchi, Pietro Montani – in occasione della riedizione di un importante volume da lui curato nel 2001, Antigone e la filosofia, dedicato alle principali letture filosofiche di Antigone – apprezza, a differenza di Steiner, la forza del mythos e della tragedia per la sua capacità di “riplasmare il domandare stesso” attraverso la messa in scena che costituisce “una forza unificante superiore a ogni possibile deriva relativizzante”.
La galassia di queste tensioni filosofiche divergenti – molteplicità contro potenza unificante del teatro tragico – ha un risvolto cruciale, ma paradossalmente non sempre tematizzato in maniera diretta in una tragedia dedicata alle antinomie della legge, in ambito giuridico. Un libro recente di Fabio Ciaramelli, invece, si assume il compito di tematizzare questo aspetto decisivo. Ne Il dilemma di Antigone la tragedia di Sofocle si offre come una chiave in grado accedere ad alcuni dei fondamenti della filosofia del diritto e, in questo modo, a un universo di riferimento anche più ampio. In questo senso, se peraltro il lavoro di Ciaramelli si rivolge apertamente ai “novizi” degli studi giuridici, al contempo, si rivela un’interrogazione critica sulla giustizia delle leggi esplorando alcuni dei più importanti riverberi della questione nell’attuale dibattito filosofico-giuridico dell’Antigone, senza trascurare alcune delle rotte essenziali che hanno traghettato la tragedia lungo tutta la storia del pensiero.
Il dilemma di Antigone, per Ciaramelli, è innanzitutto, naturalmente, il dilemma del nomos, dal momento che la tensione tragica non mette in dubbio una norma determinata né solamente le sue fondamenta, ma la stessa possibilità che esistano delle fondamenta (Ciaramelli 2017, p. 31). La posta in gioco dello scontro tra Antigone e Creonte allora è la giustificazione delle leggi, la legittimazione dell’esistenza stessa del sistema giuridico. Si tratta, cioè, nientemeno verificare la possibilità di fondare, grazie all’esistenza di uno statuto ontologico che regga l’ordine normativo, un insieme di norme in grado di regolare le relazioni sociali. Va da sé che un problema tanto radicale, a cui Ciaramelli risponde in maniera decisamente negativa, è un’interrogazione che riguarda la filosofia del diritto, ma che coinvolge anche il piano della morale e del politico. Attorno allo scontro Antigone/Creonte – che si parteggi per l’una o per l’altro – è infatti in ballo la fedeltà alla norma per il bene della città o l’integrità della coscienza individuale che di quella città di fatto è parte, ma con cui evidentemente non può identificarsi.
E se le posizioni in gioco oppongono i due protagonisti anche su un piano linguistico – Antigone fonda la sua posizione su un gesto che non ha bisogno di molte parole a differenza di Creonte che si prodiga in un fiume di discorsi per giustificare il suo ordine crudele ma, a suo dire, necessario – entrambi conducono le loro posizioni alle estreme conseguenze, scandendo la tragicità della messa in scena sofoclea. L’irremovibilità di Antigone nel voler dare sepoltura al fratello Polinice, il cui corpo giace straziato sul campo di battaglia, non ha bisogno di molte parole. Il suo è un gesto chiaro, che non intende né celarsi né giustificarsi; al contrario, è talmente evidente e plateale da scuotere l’ordine costituito. Un gesto che Antigone non intende teorizzare ma compiere: «Antigone parla soprattutto con la muta eloquenza del suo gesto, cioè l’intransigenza e la forza di rottura della sua iniziativa» (p. 9). Alla risolutezza di Antigone fa da perfetto contraltare la loquacità di Creonte, che argomenta con altrettanta determinazione l’inevitabilità della sua scelta sovrana. Le sue orazioni mirano a rafforzare la sua posizione pubblica rispetto alle leggi, nell’estrema necessità di difendere la città, di non seppellire il cadavere di chi, nella guerra civile, si è macchiato di tradimento, mettendo a rischio l’ordine della polis.
Questa opposizione radicale, però, non fa altro che nascondere una similitudine tra i due contendenti. Seguendo le argomentazioni di Martha Nussbaum (La banalità del bene), che sottolinea come la forza di ribellione contro l’editto cittadino di Antigone ha a che fare con la philia – con l’amore per la famiglia piuttosto che con l’amore per l’altro – Ciaramelli interpreta il gesto di Antigone, alla Hegel, come assolutamente non universalizzabile. Nella salvaguarda del corpo martoriato e senza pace del fratello insepolto, Ciaramelli scorge un gesto privato, singolare, teso all’esclusiva difesa del proprio legame familiare piuttosto che un principio universale che riguarda la dignità umana – ed è qui che risiederebbe una certa somiglianza, seppur per opposizione, tra i due poli della tragedia sofoclea (p. 97).
Se nel caso di Creonte, infatti, le basi propriamente politiche della sua decisione risultano insufficienti – proprio per il carattere totalizzante che la politica può assumere di fronte, ad esempio, alla sepoltura dei corpi dei nemici che in senso stretto è questione che travalica la politica – la stessa Antigone, lungi dal poter essere identificata come emblema eroico della rivolta politica, fonda il suo gesto su un piano del tutto privato, «non riconducibile ad alcuna necessità oggettiva o intersoggettiva» (p. 94). Come Creonte sacrifica ogni affetto e valore per il bene supremo, che per lui è il bene della città; tanto Antigone trasgredisce le leggi subordinando i suoi obblighi di appartenenza ad una comunità politica quelli, per lei primari, della famiglia. Ma «questa vera e propria reductio ad unum paradossalmente li accomuna» (p. 97).
Entrambi, dunque, si macchiano di hybris, di tracotanza, poiché entrambi si attestano caparbiamente su posizioni autoreferenziali, barricandosi dietro personali deduzioni logiche (p. 116). Questa contrapposizione sull’orlo del limite del regime democratico, rappresenta la forza della tragedia; d’altronde è in seno alla democrazia ateniese che si sviluppa, che si fa interrogazione continua di questo limite: «La stessa democrazia è un regime tragico. E il senso della tragedia sta nel fatto che il problema dell’umano è la hybris: non c’è infatti una regola ultima cui egli possa riferirsi per sfuggirvi» (p. 39). Tuttavia una differenza esiste. La hybris di Creonte, infatti, è proprio la spietata messa in pratica della norma, il rischio d’irrigidimento eccessivo che mette in pericolo la democrazia quanto una ribellione dei suoi stessi cittadini. Proprio la mancanza di attenzione a questa temibile rigidità del nomos (p. 119) è ciò che Ciaramelli imputa a due tra le più influenti interpretazioni della tragedia di Sofocle: quella di Hegel e di Lacan. Per quanto diverse infatti, le due letture trascurano questo pericolo, «soppiantato da una vera e propria ontologizzazione della legge» (p. 120).
Preservare da una lettura in chiave ontologica la figura di Antigone intesa come «limite e risorsa istituente dell’ordine sociale» (p. 217) significa preservare la democrazia, unica salvaguardia possibile dalla dismisura. Il gesto di Antigone sconvolge l’ordine costituito ma non si colloca in una semplice dimensione di illegalità quanto piuttosto si sottrae alla linearità prestabilita delle norme chiamando in causa una dimensione di assenza del nomos, di a-legalità: «un’estraneità all’ordine e alla sua stabilità» (p. 221). Questa figura a-legale che Ciaramelli consegna ad Antigone, né legale né illegale, garantirebbe la tenuta del regime democratico. Non avendo la democrazia un fondamento ultimo su cui contare – se non le dinamiche concrete dei suoi consociati – nel momento in cui le sue norme vengono spinte al limite dalla prassi, è possibile rimettere in discussione la democrazia stessa, rimanendo dunque ad essa fedeli fino in fondo.
Riferimenti bibliografici
P. Amato, D. Cecchi, La filosofia di Antigone. In dialogo con Pietro Montani,”K. Reveu trans-euroéenne de philosophie et arts”, numèro 0, 1/2018.
F. Ciaramelli, Il dilemma di Antigone, Giappichelli Editore, Torino 2017.
P. Montani, a cura di, Antigone e la filosofia. Hegel, Kierkegaard, Holderlin, Heiddegger, Bultmann, Donzelli, Roma 2017.
G. Steiner, Le Antigoni, Garzanti edizione digitale, Milano 2014.