C’è un’arte che si muove nell’ordinario, che ci emoziona perché è in analogia con la nostra esperienza di tutti i giorni. Ce la fa vedere e talvolta comprendere meglio. E c’è un’arte invece che trascende questa esperienza. Un’arte propriamente titanica che sembra spingere verso il superamento dell’umano all’interno dell’umanità stessa. È questa l’esperienza che si ha vedendo Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, l’opera di Anselm Kiefer pensata specificatamente per Palazzo Ducale di Venezia, in mostra ancora per pochi giorni.

Un’opera gigantesca che, citando nel titolo il filosofo Emo, ricopre le pareti e i grandi dipinti di Tintoretto, Palma il Giovane e Andrea Vicentino della Sala dello Scrutinio, a loro volta messi lì a ricoprire ciò che il grande incendio del 1577 aveva distrutto. Si è sopraffatti da tale opera. Ma da cosa ci sentiamo sopraffatti? Che cosa si sottrae alla parola ma allo stesso tempo la richiama come mezzo di trasposizione dell’opera stessa nell’esperienza ordinaria?

Ci serve a capire meglio tutto questo un testo di Peter Handke sull’artista tedesco, “Anselm Kiefer o l’altra caverna di Platone”, tratto da Appetito per il mondo, una raccolta di saggi su letteratura, cinema e teatro, pubblicata di recente da Meltemi.

Ciò che colpisce nel testo di Handke non è tanto quanto dice sulla forma che non conta, e sul fatto che «la pittura agisce come se nulla fosse mai stato (dato), e come se tutto fosse (ancora) possibile» e che «la realizzazione è trascurabile, poco importante, secondaria» (Handke 2022, p. 224), quanto quello che afferma sul fatto che «la pittura di Anselm Kiefer ha qualcosa  di pericoloso» (ivi, p. 224).

Dov’è il pericolo? In cosa risiede? «Se Kiefer è “titanico” lo è nel senso di una conquista non del cielo, ma della terra» (ivi, p.227).  La conquista del cielo riguarda le forme generiche classiche, per esempio la commedia, con il movimento dal basso verso l’alto (l’happy end); la tragedia invece incarna il movimento opposto, la precipitazione verso il basso. In entrambi i casi, nella commedia e nella tragedia, sono in gioco le forme ordinarie di vita. Entrambi i generi riguardano la rappresentazione e l’uso del linguaggio, elusivo nella tragedia o fiducioso nella commedia.

Ma la conquista della terra significa qualcosa di più radicale, significa arrivare ai bordi del linguaggio, fuoriuscire dal perimetro del suo buon uso, entrare in quella zona liminale e pericolosa in cui il linguaggio affonda nel suo fuori. Fuori comunque interno al linguaggio stesso, e che emerge come una sorta di implicitezza in sé. «L’arte è ciò che è palese. È ciò che è palese ma anche nascosto. È nascosto nella misura in cui non puoi raggiungerlo con un discorso chiaro» (Kiefer, cit. in Siren 2022, p. 55).

Ritornano alla mente le parole de L’origine dell’opera d’arte di Heidegger: «Ciò in cui l’opera si ritira e ciò che, in questo ritirarsi, essa lascia emergere, la chiamiamo: la Terra. Essa è la emergente-custodente […]. L’opera lascia che la terra sia una terra» (Heidegger 1987, p. 31). Questo emergere della Terra non è separabile dal Mondo come l’insieme delle coordinate che definiscono il presente storico: «Il Mondo e la Terra sono essenzialmente diversi l’uno dall’altro e tuttavia mai separati. Il Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo» (ivi, p. 34).

Ciò emerge imperiosamente e quasi letteralmente nei dipinti di Anselm Kiefer esposti a Palazzo Ducale: il potere della materia che viene a comporre il dipinto porta con sé l’acronico di ere geologiche tradotte nei cromatismi (giallo, marrone, grigio) e nei materiali che vediamo messi in opera (paglia, legno, cartone, fogli d’oro, piombo, cavi di metallo). La conquista della Terra è una sorta di sezione geologica dove sono presenti però i resti, le tracce del Mondo: dalla scala di Giobbe (segno di un movimento ascendente verso il cielo), al sarcofago aperto di San Marco, ai sottomarini, allo stendardo di Venezia, ai carrelli della spesa.

I resti acronici del Mondo e della Storia sono i pezzi, i frammenti di un linguaggio, attraverso i quali la Terra può emergere in quanto tale. «L’arte interviene soltanto là dove si intuisce ancora il soggetto» (Kiefer 2018, p. 48), nel punto in cui la mimesi non si è del tutto dissolta, dove si conservano ancora tracce della dimensione rappresentativa dell’opera, della sua figurazione. Punto in cui tra il Mondo e la Terra è possibile una conversione dell’uno nell’altra e viceversa.

Conversione delle diverse epoche della storia veneziana e della storia dell’umanità nel senza tempo di un essere della materia prossimo al nulla. Un senza tempo da captare, da conquistare, dove la linea ondulata della storia, con i movimenti ascendenti e discendenti, precipita nell’intensità di una materia che tutto rischia di bruciare, ma che proprio in questo  bruciare sembra dar luce.

È il punto di incandescenza in cui la forma si dissolve a vantaggio di una pura intensità delle forze, e con ciò stesso le porta ad immagine. E venendo ad immagine senza essere immagine, le forze ci indicano l’orizzonte per il costituirsi delle forme nel momento stesso in cui le dissolvono.

È questo il “grande pericolo” che Kiefer ci mostra e ci dice, come quando afferma che «solo un iconoclasta può essere un buon artista». L’iconoclastia non è il “fuori” dell’immagine, ma ne costituisce la sua anima interna, il suo principio generativo. Così come il silenzio non è il fuori della parola, un esterno da questa diviso, ma ne costituisce l’orizzonte di senso.

È solo vedendo la potenza iconoclasta nell’immagine, ascoltando il silenzio nella parola, vedendo le forze nelle forme, che noi corriamo allo stesso tempo il massimo pericolo – che tutto si incendi lasciando cenere – ma anche la più grande delle occasioni – che tutto bruciando generi luce e dia nuovo senso alle immagini e alle parole, e a quell’esperienza ordinaria e quotidiana che tale arte titanica sembra sospendere, ma di cui invece contribuisce a rivelare il profondo carattere. Il carattere eroico che abita ogni nostro atto di parola, ogni nostro semplice gesto, che porta con sé tutte le parole e i gesti che lo hanno preceduto, li tiene con sé, li cancella e li rigenera ogni volta, e con questo li trasmette a chi continuerà a cancellarli e a scriverli, componendo quella linea acronica del tempo che a noi arriva e da noi passa.

Riferimenti bibliografici
M. Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1987.
A. Kiefer, L’arte sopravviverà alle sue rovine, Feltrinelli, Milano 2018.
J. Siren, “Venetiae Fortis et Vulnerabilis”, in Anselm Kiefer. Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, catalogo della Mostra a cura di G. Belli e J. Siren.

Anselm Kiefer, Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, a cura di G. Belli e J. Stiren, Palazzo Ducale, Venezia, 26/03/2022 – 6/01/2023.

P. Handke, Appetito per il mondo. Saggi su letteratura, cinema e teatro (1966-2003), Meltemi Editore, Roma 2022.

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