Forse è ancora una volta una prospettiva geografica quella che ci permette di capire se non tutto, molto. Molto del cinema, ma anche di ciò che gli sta fuori.
D’altra parte nazionalismo e globalizzazione, due categorie usate per leggere il presente, rimandano ad una geografia. Dunque, in questo 2019 c’è l’America ancora una volta, e c’è l’Italia. C’è un’America che nei suoi esempi più interessanti problematizza le forme dell’immagine-azione (al netto dei supereroi), e c’è un’Italia che fa emergere il tratto sperimentale del lavoro formale rispondendo a grandi temi. Eastwood, Zemeckis, Tarantino, Soderbergh da un lato, il Moretti di Santiago, Italia, Bellocchio, Marcello, Martone, Maresco dall’altro.
Tutta la storia del cinema, mi è capitato di scrivere, è al fondo la storia di America e Italia. Cinema americano e italiano non definiscono esclusivamente il perimento di cinematografie nazionali, sono molto di più. Sono i nomi propri di due estetiche e di due ontologie, rispetto a cui tutto il resto, anche quando rilevante, non è che una variazione.
Nel caso dell’America, la questione al centro è stata sempre l’azione, a partire dal padre fondatore Griffith e da tutti i grandi generi che hanno contrassegnato la stagione d’oro della Hollywood classica. Solo l’azione in quanto modificazione della situazione orientata da obiettivi e volontà si può trasformare in intreccio. E solo gli intrecci sono apparentabili in forma pertinente ai generi, come dice chiaramente Aristotele nella Poetica, collocando il mythos al primo posto tra gli elementi caratterizzanti le forme generiche. In sintesi, è un’ontologia — e una logica ed una semantica — dell’azione ad essere stata da sempre in gioco nel cinema statunitense (come dimostra l’ispirazione aristotelica di molti manuali americani di sceneggiatura) e ad avergli garantito il dominio assoluto dell’immaginario mondiale, dagli inizi ad oggi.
Con il cinema italiano, nella modernità, l’ontologia dell’azione viene sostituita da quella dell’“incontro” (come teorizzava Zavattini). La cosa non significa altro che il cinema e le immagini si aprono ad una disposizione che potremmo definire più “contemplativa”, intendendo con questo i tanti e differenziati modi attraverso cui l’azione viene minata, sospesa, resa iperbolica, sottratta comunque alla modifica della situazione e all’ancoraggio pieno del soggetto al mondo. Nel cinema d’azione il personaggio interviene nel mondo per modificarlo, nel cinema “contemplativo” il personaggio, per una serie di ragioni “interne” ed “esterne”, attraversa il mondo, lo guarda, ne è distante, non riesce o non può intervenire.
Naturalmente, oltre all’infinità di varianti, fra i due modelli ci sono una serie di possibili intrecci, che per esempio il cinema dell’Estremo Oriente ha saputo mettere in gioco con grande efficacia. Ma ciò che fuoriesce da questi modelli di fatto è epifenomeno. E se questo è accaduto tra Stati Uniti e Italia è per diverse ragioni, ma soprattutto perché un dispositivo espressivo come il cinema è legato al carattere globale di una economia di mercato segnata dal denaro, che prescinde — a differenza del teatro, legato alla presenza di una borghesia illuminata — da ogni perimetro nazionale forte.
Stati Uniti e Italia, che solo nella seconda metà dell’Ottocento (guerra di Secessione americana e costituzione dell’unità nazionale italiana sono pressoché coeve) compongono una sintesi “nazionale” dialetticamente aperta tra località e globalità, singolarità ed universalità, usano il cinema — fin dalla sua nascita — come un dispositivo di “adozione” a livello planetario di un immaginario e di stili di vita (America) o come forma espressiva intorno a cui reinventare una intera comunità dopo la guerra e i totalitarismi (Italia). In questo, ciò che dice Godard nei cinque minuti che dedica al cinema italiano nelle Histoire(s) du cinéma rimane esemplare: quando il resto del cinema europeo non faceva nulla, l’Italia rinasceva dalla guerra, dal tradimento e dai totalitarismi attraverso un film come Roma città aperta. E questo perché il cinema italiano era ed è un “cinema senza uniforme”. Come al fondo il più grande e inventivo cinema americano (Welles su tutti).
Certo, c’è una differenza di fondo: mentre l’America nasce democratica nel nome della fiducia emersoniana convertita in un potente spirito di iniziativa, l’Italia acquisisce molto tardi e a fatica le pratiche della vita democratica, ed è attraversata da un leopardiano scetticismo. La prima sposa l’azione (e l’intreccio), la seconda lo sguardo (e la contemplazione). Il cinema è tutto qui, anche quello di oggi. E gli esempi migliori sono quelli che contaminano le due estetiche e le due ontologie.
In The Mule Eastwood, all’interno di un’armatura di film d’azione, con un vecchio che fa il corriere della droga, inserisce la contemplazione di un fiore la cui vita dura un solo giorno e nella coltivazione del quale si deposita il senso della vita per il vecchio Clint. In C’era una volta… a Hollywood Tarantino manda in giro l’attore in declino e lo stuntman che attraversano una Hollywood inquieta di fine anni sessanta e giunge perfino a cambiare il corso degli eventi, trasformando l’accaduto (la morte di Sharon Tate) in immaginato (la fine dei suoi assassini). È una fine — in termini aristotelici — artisticamente verosimile, ma non storicamente vera. L’arte toglie alla storia (alla cronaca) la sua inesorabilità, ne fa emergere linee abortite. Non si tratta di una consolazione illusoria, quanto di riaprire la necessità dell’accaduto attraverso una possibilità non espressa ma verosimile. In Joker un personaggio, erede dei fumetti e del cinema d’azione che ne è derivato, diventa uno psicopatico incapace di sottrarsi ad una condizione dolorosa che lo mette a dura prova.
E se prendiamo il cinema italiano nei suoi esempi migliori, vediamo la contaminazione di un modello “contemplativo” con architetture narrative e dispositivi d’azione. Anzi, la forza di alcuni dei film migliori di quest’anno (Bellocchio, Marcello) passa per la presa in carico “strumentale” di storie potenzialmente d’azione, che vengono invece condotte altrove. E dove anzi quell’“altrove” sembra proprio il motore stesso che ha originato l’uso della storia.
È così per un film bello e coraggioso come Martin Eden, che si misura tra l’altro direttamente con un classico della letteratura americana. La storia del romanzo di Jack London diventa l’intercessore di una potenza di espressione che trova nel montaggio analogico di immagini d’archivio (di movimenti politici del Novecento) la forma propria di attuazione. E questo anche in Bellocchio, dove la questione del tradimento va ben oltre la mafia. Il traditore è il romanzo di una vita, molto più che una storia (di mafia) con la sua logica. Tant’è che si apre con l’“attrazione” di un ballo durante la festa di Santa Rosalia a Palermo, passa per il teatro grottesco del processo, e finisce con un avvitamento melodrammatico del tempo e la “rima” tra due morti.
La differenza tra America e Italia è semmai il punto d’attacco. Partendo dal lato dell’immaginario, il cinema americano più originale può arrivare a complicarlo, a saturarlo, a cortocircuitarlo (Benvenuti a Marwen di Zemeckis, Panama Papers di Soderbergh, C’era una volta… a Hollywood), in questo modo inibendone la capacità di alimentare forme di vita illusorie e codificate (come accade in fondo alla serialità televisiva). Partendo dal lato del reale, il cinema italiano più innovativo e a tratti sperimentale lo complica e lo innesta con dimensioni finzionali che lo sottraggono ad ogni ingenuità documentaria (Santiago, Italia e La mafia non è più quella di una volta), in un intreccio tra realtà e finzione, tra verosimiglianza delle azioni narrate e loro messa in questione attraverso la verità delle “contemplazioni” ma anche quella di “illogiche” precipitazioni narrative.
In questo, una geografia incarna tutta una storia. Due differenti tradizioni dunque, l’americana e l’italiana, incomparabili per potenza economica, ma dove la domanda che le alimenta, cioè la pressione delle forme di vita (anche caotiche) da portare ad espressione, è la stessa, e ritorna anche nel cinema del presente, biforcandosi tra narrazione di una storia (azione) o mostrazione del mondo (contemplazione). E soprattutto dando vita al loro intreccio in tutte le molteplici possibili varianti. Perché in definitiva in gioco nel cinema più importante e nuovo c’è sempre come re-inventare una comunità, piccola o grande che essa sia, a partire da uno sguardo sul presente e sul passato, origini esso dall’io o dal noi.
Non è che al di fuori di questo non ci sia altro. E talvolta anche di molto significativo. Ma o è qualcosa di splendidamente classico, come nella tradizione di certo cinema d’autore europeo, dove il film, la sua forza espressiva, si sigilla sul tema in forma ermetica, come nel film di Almodóvar Dolor y Gloria o in un’opera notevole come L’ufficiale e la spia di Polanski. Oppure è qualcosa che radicalizza un certo sguardo contemplativo, come nel cinema dell’estremo Oriente, per esempio in Burning–L’amore brucia di Chang-dong Lee, o in un Oriente più prossimo, come nell’opera originale e notevole dell’ucraino Valentyn Vasyanovych, Atlantis, dove lo sguardo che compone l’inquadratura assorbe tutta la dimensione narrativa, facendola depositare nella materialità delle cose. In ogni caso, pensare il cinema del presente significa soprattutto costruirne cartografie, e vedere come in esse si depositi anche il tempo della tradizione.
Non è tanto importante ricostruire dinamiche di genere, pratiche, dispositivi. Quando questo accade sembra emergere più il desiderio di controllabilità dell’oggetto da parte dello studioso e del critico attraverso la costruzione di un piano autoreferenziale che l’esigenza di comprendere. L’importante è tracciare mappe, perché la prospettiva geografica permette di individuare una questione di fondo. Se il cinema è una forma di espressione vincolata alle pratiche di vita (la centralità del denaro in entrambe è segno palese del vincolo), che porta a rappresentazione nel modo più “immediato”, allora è questo legame che va pensato.
Va pensato il modo in cui in una tale relazione — che nel caso del cinema investe le masse — le forme di vita condizionino decisamente quelle di espressione e come queste ultime, portando ad immagine le prime, contribuiscano a reinventarle (nei casi felici). E tutto questo non può che essere orientato e definito secondo un perimetro geografico: per cui i generi cinematografici non possono che essere eminentemente americani, perché si fondano sull’azione (sulla fiducia che la anima e sull’imputabilità che ne consegue), e un “cinema del reale” (nelle differenti declinazioni che può avere) non può che avere un vincolo privilegiato con l’Italia, perché si fonda su una sorta di “passività di sguardo” collocata al fondo su un sentimento scettico. Ed è tutto questo che ci fa dire che ancora oggi il cinema è in definitiva una questione di America ed Italia (e non è troppo lontano anche da quello che Tarantino ci dice in C’era una volta… a Hollywood)!