L’Olocausto fu la base di partenza attorno alla quale si inaugurò la teoria del trauma nella forma elaborata dalla scuola di Yale, a partire dagli anni novanta (Cathy Caruth, Shoshana Felman e Dori Laub). Questo evento ha assunto una portata sacrale, configurandosi, sottolinea Saul Friedlander, come trauma storico di massima portata, caso unico, caso limite, «evento che mette alla prova le nostre tradizionali categorie concettuali e rappresentative» (Friedlander 1992, p. 3).
La riflessione relativa all’Olocausto, come evento dal significato non storicizzabile, incomparabile, ha gettato le basi per la riflessione sull’incomunicabilità dell’esperienza traumatica così come sulla problematicità della sua rappresentazione. Nel volume Testimony: Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis and History, Felman e Laub definiscono la Shoah come indice di una crisi della testimonianza, «accadimento storico senza precedenti di un evento che ha eliminato i propri testimoni» (Felman, Laub 1992, p. 5). La questione dell’effettiva rappresentabilità dell’esperienza traumatica, l’aporia dei significati, rappresentare l’irrappresentabile, nominare l’innominabile, sono questioni estremamente interconnesse alle problematicità che il trauma pone nella possibilità della storia, nella sua trasmissione e nel suo processo di costruzione.
In linea con le tesi proposte da Primo Levi, secondo cui di fronte alla Shoah gli unici testimoni possibili sono i sommersi, coloro che non possono più testimoniare, e da Giorgio Agamben, il quale sostiene che l’autentico testimone non possa essere il sopravvissuto ma colui che non può più testimoniare, colui che non è tornato per raccontare, o che è tornato muto, ovvero il musulmano, Dori Laub sostiene che «il testimone non può esistere là dove nessuno può tirarsi fuori da un ambito di avvenimenti totalizzante e disumanizzante» (Laub 1995, p. 65).
Secondo lo psichiatra americano: «l’Olocausto non ha prodotto testimoni, poiché, come avvenimento, aveva una struttura psicologica così contorta e incomprensibile, da rendere impossibili gli atti di testimonianza da parte addirittura delle vittime stesse» (Laub 1992, p. 68). Ad ogni modo, l’intento di Laub non consiste nello screditare le molteplici testimonianze o il processo stesso di testimoniare un’esperienza traumatica, che porterebbe a compimento il disegno nazista della soluzione finale, del vuoto testimoniale, quanto proporre alcune riflessioni sulla relazione tra testimonianza e verità storica, partendo da un principio di indicibilità, irrappresentabilità, per leggere e comprendere le testimonianze per natura parziali dei sopravvissuti.
Concentrandosi soprattutto sulle tecniche di condivisione e ricezione del trauma così come sulle responsabilità degli interlocutori/intervistatori, Laub identifica tre differenti livelli di testimonianza: «Essere testimoni della propria esperienza, essere testimoni delle testimonianze di altri, essere testimoni dell’atto stesso di testimoniare» (ivi, p. 75). La terza modalità sottolinea l’importanza da parte del sopravvissuto di trasmettere la propria esperienza ad un interlocutore, «lo schermo nero su cui l’evento viene iscritto per la prima volta», che diventa testimone prima del narratore stesso (ivi, p. 75). Attraverso la testimonianza, l’individuo reclama e afferma la propria posizione di testimone, una forma di azione, di rielaborazione del trauma che continua e completa il processo di sopravvivenza dopo la liberazione.
Diretto dalle registe Sabina Fedeli e Anna Migotto, #AnneFrank: Vite parallele (2019) si pone l’obiettivo di trasmettere la testimonianza di cinque donne, tra le “ultime” sopravvissute ai campi di sterminio. Arianna Szörenyi (1933), Sarah Lichtsztejn-Montard (1928), Helga Weiss (1929) e le sorelle Andra e Tatiana Bucci (1937 e 1939) raccontano le proprie esperienze di fuga e di prigionia, l’infanzia perduta. Agli occhi delle donne sono ancora ben visibili le decine di cadaveri ammassati nelle fosse comuni, le umiliazioni e le privazioni subite.
Il film alterna le testimonianze delle donne con alcuni passaggi del diario di Anne Frank, letti e interpretati da Helen Mirren, così come i commenti e le osservazioni di storici e studiosi che si occupano dell’Olocausto. Nonostante per molti sopravvissuti questi ricordi siano rimasti per lungo tempo segreti e obliati, sia per l’impossibilità e la difficoltà di verbalizzare l’esperienza sia per proteggere le generazioni future da una memoria estremamente traumatica, le donne intervistate comprendono l’importanza e l’imperativo di testimoniare, per evitare che il ricordo dell’orrore sbiadisca e si dissolva con il passare del tempo.
Il racconto è rivolto prevalentemente alle nuove generazioni, così come ai figli e ai nipoti delle sopravvissute, che hanno vissuto il trauma storico attraverso le immagini, gli oggetti, i racconti, i ricordi e i comportamenti trasmessi all’interno della famiglia. Ad emergere è dunque anche il concetto di post-memory, teorizzato da Marianne Hirsch, forma «distinta dalla memoria da una distanza generazionale e dalla storia da una connessione personale» (Hirsch 1997, p. 22). Secondo quanto afferma la studiosa, «la post-memoria caratterizza l’esperienza di persone cresciute sotto il dominio di narrazioni che hanno preceduto la loro nascita, le cui storie personali, arrivate in seguito, sono forzate a farsi da parte dalle storie della generazione precedente, storie che hanno preso forma da eventi traumatici che non possono essere né compresi né ricreati» (ivi, p. 22).
Ad instaurare un dialogo con Anne Frank è Katerina, un’adolescente il cui nome richiama quello di Kitty, l’amica immaginaria a cui Anne si rivolgeva nel diario, per un confronto, uno sfogo o in cerca di consolazione. La giovane intraprende un viaggio per l’Europa attraverso alcuni dei luoghi che hanno caratterizzato l’esperienza traumatica dei sopravvissuti, dal campo di concentramento di Bergen Belsen a quello di Auschwitz, da quello di Drancy a quello di Terezin, fino a raggiungere la casa di Anne Frank ad Amsterdam. Nel suo percorso attraverso i luoghi del trauma, che oltre a conservare la memoria dell’evento di cui recano testimonianza, nel momento in cui vengono resi siti, acquisiscono una nuova funzione e un nuovo senso, non semplici depositi di memoria ma mediatori e produttori di memoria, la ragazza cerca risposte, cerca la voce di chi è sopravvissuto.
Questa volta è Katerina, attraverso un nuovo linguaggio epistolare, attraverso Instagram, a interrogarsi e a interrogare lo spettatore su quanto accaduto, sul processo individuale e collettivo, rituale e privato di commemorazione, lutto e rimembranza. Dopo che le parole di Anne, da confessione intima e privata hanno assunto un valore simbolico e testamentario, le sopravvissute, intervistate nel corso del film, cercano di riprendere questo lascito, gettando luce sul passato traumatico, informando e istruendo gli spettatori e le generazioni future in un crescente clima di odio e violenza come quello odierno. Il testo filmico protegge e riconfigura il ricordo, preservandolo dal trascorrere del tempo, salvandolo dall’oblio, facendo emergere tracce materiali nel tempo presente atte a conferire una coscienza post-traumatica.
Riferimenti bibliografici
S. Friedlander, a cura di, Probing the Limits of Representation: Nazism and the “Final Solution”, Harvard University Press, Cambridge 1992.
S. Felman, D. Laub, Testimony: Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis and History, Routledge, London-New York 1992.
M. Hirsch, Family Frames: Photography Narrative and Postmemory, Harvard University Press, Cambridge 1997.
D. Laub, Truth and Testimony: The Process and the Struggle, in C. Caruth, a cura di, Trauma: Exploration in Memory, John Hopkins University Press, Baltimore-London 1995.