Nel febbraio del 1952 Anna Magnani recita in presa diretta negli studi di Cinecittà The Golden Coach di Jean Renoir, che poi doppierà in italiano (La carrozza d’oro) e in francese (Le carosse d’or). È il suo secondo film in lingua inglese, dopo Volcano (Vulcano, 1950) di William Dieterle, anch’esso prodotto dalla Panaria Film, una casa di produzione indipendente fondata da nobili siciliani pionieri della cinematografia subacquea: il principe Francesco Alliata di Villafranca e Pietro Moncada di Paternò, a cui si uniscono altri aristocratici, Quintino di Napoli e Renzo Avanzo. Il film aveva dato luogo alla famosa “guerra dei vulcani” tra Roberto Rossellini con la sua nuova compagna Ingrid Bergman sul set di Stromboli e l’amante tradita e abbandonata che girava contemporaneamente nell’isola di Vulcano.
La carrozza d’oro, ispirato a Le carrosse du Saint-Sacrement (1829) di Prosper Mérimée, doveva inizialmente essere diretto da un altro nobile, Luchino Visconti, che aveva già cominciato a scrivere la sceneggiatura insieme a Suso Cecchi d’Amico, Antonio Pietrangeli e Franco Zeffirelli. Le controversie con Visconti e i suoi ritardi portano Alliata a rivolgersi a Renoir, da tutti considerato il maestro del nobile milanese. Un giro di straordinarie coincidenze riconnette ancora il percorso dei due autori legandolo alla presenza della Magnani, che Visconti avrebbe già voluto per il suo film d’esordio Ossessione (1943) e che ha appena diretto in Bellissima (1951). Più volte Renoir dice di aver accettato la proposta di Alliata proprio perché ha interesse a lavorare con la Magnani.
La sua volontà, tuttavia, è molto lontana dal riproporre semplicemente l’icona della popolana autentica e verace dai capelli arruffati, dai gesti irruenti e dalle occhiaie profonde che caratterizza il canone neorealista in cui vengono ormai imprigionati l’aspetto e le performances dell’attrice. Come accadrà di lì a poco nell’episodio di Siamo donne (1953) diretto da Visconti, Renoir è affascinato dal suo temperamento, dalla sua natura di “commediante”, che trapassa dalla vita al teatro, dal teatro allo schermo. La qualifica di comédienne viene contrapposta a quella di actrice, secondo una bipartizione corrente nella cultura francese dell’epoca, esemplarmente teorizzata da Louis Jouvet. Per Renoir la commediante può recitare tutti i personaggi, mettere in gioco una pluralità di maschere, senza ovviamente rinunciare alla propria personalità e al proprio stile, che anzi diventano gli strumenti-chiave del suo trasformismo e, insieme, della continua fedeltà a se stessa. L’attrice, al contrario, riesce naturalisticamente a immedesimarsi soltanto in alcune tipologie di personaggi e nasconde il processo di recitazione che la commediante esibisce in ogni tratto e movimento.
Nelle mani di Renoir la Magnani diventa, secondo le sue stesse parole, la «quintessenza dell’Italia», l’incarnazione e il simbolo di una «civiltà», la «personificazione» della grande tradizione della commedia dell’arte. Si passa dai “panni sporchi” e dalle facce contratte e drammatiche del cinema neorealista ai costumi colorati e alle movenze comiche del teatro settecentesco. L’uso del Technicolor, pioneristico in Italia e in Europa, permette di sostituire ai forti contrasti del bianco e nero superfici molto più leggere e variegate, trascolorando, sempre secondo le parole di Renoir, dagli effetti di un’acquaforte a quella degli «acquarelli dai toni puri», i più adatti alla composizione briosa di una «fantasia», di un’«allegoria», com’è nelle sue intenzioni La carrozza d’oro.
La ridefinizione del personaggio della Magnani coincide in buona parte con quella del percorso renoiriano, che abbandona la rappresentazione della natura e i celebrati tratti realistici del suo sguardo per rinchiudersi nel teatro di posa, esaltando l’artificialità della cartapesta, i giochi tra il palcoscenico, le quinte e il pubblico. Come sottolinea l’amico Truffaut, che giudica il film un autentico capolavoro, la composizione di Renoir segue il «gioco delle scatole cinesi che si incastrano le une nelle altre». La carrozza d’oro è un film metarappresentativo «sul teatro nel teatro», imperniato sull’apertura e chiusura dei sipari, sulla sottolineatura continua del processo di messa in scena. Tutti gli spazi, al di là del palcoscenico in cui si esibiscono le maschere della commedia dell’arte (Colombina, Pulcinella, Pantalone. Arlecchino ecc.), sono costruiti secondo il ritmo delle entrate e delle uscite dalla scatola scenica dei personaggi, appaiono sempre pieni di porte che si aprono e si chiudono o dietro le quali si pongono gli interpreti, esclusi momentaneamente dalla rappresentazione, per spiare gli eventi che accadono. L’effetto specchio e la riproposizione continua di finestre e cornici sottolineano ancor più il meccanismo portato all’estremo della mise en abyme, sia a livello figurativo sia sul piano concettuale.
Nonostante la sua mitografia realistica, la Magnani appare a Renoir la figura ideale per portare in scena questa esaltazione della rappresentazione che congiunge lo spettacolo della vita e la vita dello spettacolo. Il varietà da cui l’attrice proviene è, come sottolinea Vito Pandolfi – chiamato a collaborare al film tramite l’aiuto regista Giulio Macchi –, un discendente della commedia dell’arte, al pari del circo da cui viene reclutato il vecchio Alfredo Medini nel ruolo di Pantalone, insieme ai quattro piccoli Arlecchini che rocambolano incessantemente sulla scena. Dal varietà si sprigiona quella continua dialettica con il pubblico che anima lo spettacolo, privo di quarte pareti e costruito sulle metamorfosi dell’attore alle prese con una vivace e irruenta platea. Facendo coincidere lo sguardo della macchina da presa con quello dello spettatore, Renoir consegna alla commediante Magnani le redini del gioco e le proprie riflessioni sulla doppia partita della rappresentazione sospesa tra autenticità e artificio, tra arte ed esistenza.
L’idea della “commedia umana” guida il senso del film che ci mostra un mondo completamente in maschera, dove le recite e i costumi di scena trapassano dal palcoscenico alle strutture della società. Nelle duplici vesti di Colombina e di Camilla, la Magnani smaschera e demistifica contemporaneamente i rituali dello spettacolo e quelli del potere, che trovano il loro simbolo proprio nella carrozza d’oro, recuperata a pezzi nelle proprietà di Pietro Moncada: un oggetto autentico e insieme artificiale – come tutta la materia che anima il film – che sembra uscito dalla fiaba di Cenerentola. Contemporaneamente la Magnani si misura con le maschere dei sentimenti e con il loro giro a vuoto attraverso le performances con i suoi tre innamorati. La doppia commedia del personaggio e della persona è intessuta di risa e di sberleffi, ma anche di solitudine e di lacrime. Con le parole “Ma chi può dirmi dove finisce il teatro e dove la vita comincia?” Camilla sigla il malinconico congedo dal mondo reale, dall’invivibilità dell’esistenza, che solo nello spazio artificiale del teatro può ritrovare e animare le sue tensioni e i suoi desideri più autentici.
Al ritmo delle musiche di Antonio Vivaldi, con cui Renoir confessa di aver scritto la sceneggiatura, la vita viene rappresentata come un balletto di passi che non giungono a compimento, come una sorta di performance tanto più tragica quanto più calata nei clichés della farsa. Nel finale il teatro della vita e la vita del teatro non pervengono a una sintesi dialettica ma a un’inevitabile separazione, con cui viene riconsacrata la loro interdipendenza.
Anna Magnani ha dichiarato di riconoscersi in questa continua confusione e divisione tra le avventure esistenziali e le esibizioni artistiche che caratterizzano il personaggio di Camilla. Per suo tramite Renoir restituisce le pulsioni e le tensioni vitalistiche che animano l’artificio della rappresentazione. Il vero, secondo le sue stesse parole, è affidato all’inverosimile, con cui viene rappresentato «l’artificiale trionfo della verità interiore». Verità che traspare dal volto della Magnani e dai suoi occhi lucidi di lacrime nella scena della resa dei conti con i suoi tre pretendenti, dove i primi piani e le mezze figure, ovvero costruzioni tipicamente cinematografiche, sostituiscono i totali e i campi lunghi tipici dello spettatore seduto nella platea del teatro. Questa variazione di distanze della macchina da presa guida, in tutto il corso del film, i giochi di recitazione della Magnani, che ripresa da lontano si esibisce attraverso il corpo, con i movimenti degli arti, della testa e del busto, mentre inquadrata da vicino affida ai tratti del volto e alla mobilità degli occhi la radiografia del proprio essere.
La maschera di Camilla/Colombina è sempre incarnata, guidata da una esuberante, gioiosa e sofferta fisicità, la stessa che caratterizza la commediante Magnani nel duplice schermo dell’esistenza e del cinema su cui i rotocalchi dell’epoca costruiscono una continua deriva romanzesca. Alla fine Renoir non distrugge la sua icona realistica e popolare, come gli viene rimproverato dalla critica italiana, ma, attraverso una continua stilizzazione, la universalizza e la consacra quale simbolo di una tradizione e di un’identità nazionale. La Magnani non è più soltanto il corpo urlante abbattuto dai tedeschi in Roma città aperta, ma un’autentica commediante, capace di esaltare il proprio mestiere attraverso i travestimenti e i denudamenti. Una maschera insieme mobile e fissa, che modella e svela il tumulto della carne, portando sulla scena un’interrogazione continua sul senso dell’arte e della vita.
Riferimenti bibliografici
M. Hochkofler (con la collaborazione di Luca Magnani), Anna Magnani. La biografia, Bompiani, Milano 2013.
V. Pandolfi, La commedia dell’arte nella “Carrozza d’oro”, “Cinema”, n. 83, 1 aprile 1952.
J. Renoir, Ecrits (1926-1971), Belfond, Paris 1974.
Id., Ma vie et mes films, Flammarion, Paris 1974.
Id. et F. Truffaut, Entretien avec Jean Renoir, “Cahiers du Cinéma”, n. 34, aprile 1954.