La natura è una vittima. L’aggressore è l’umano. L’uomo (proprio uomo: un dualismo donna/natura sembra impensabile) è il soggetto, la natura l’oggetto che non può fare altro che subirne l’azione violenta. In effetti, che cosa vuol dire, da un punto di vista metafisico, “antropocene”? Significa, propriamente, non riuscire a non pensarsi come il punto di riferimento del mondo. La specie umana, Homo sapiens, è la responsabile, diretta o indiretta, di tutto quello che accade nel mondo, nel bene ma anche – e soprattutto in questi tempi di global warming – nel male. In questo senso l’epoca dell’antropocene, in realtà, non smette di essere un’epoca in cui la specie umana continua a pensarsi come l’unico agente su scala globale. La natura, gli animali, le piante, i mari, le montagne, lo stesso sole, sono tutti oggetti privi di agency in balia delle azioni umane. Anime selvagge. La rigogliosa libertà del mondo non umano, di Emma Marris (Il Margine, 2022) smonta questo impensato scenario metafisico e mostra da un lato gli effetti aberranti di certi tentavi umani di “ripristinare” lo stato “naturale”, e dall’altro quanto invece il mondo animale sia comunque capace di cavarsela da solo.
Prendiamo il caso esemplare, e terribile, della lupa a cui gli umani (che amano la natura e la vogliano difendere) hanno marchiato con la sigla 47 (è una pura coincidenza, ma nella Smorfia napoletana è il numero che corrisponde al morto) e inserito sotto pelle un ricevitore GPS, in modo da poter sempre sapere dove si trovi (è curioso, ed è una contraddizione su cui Marris torna più volte nel suo libro, quanto l’amore della natura richieda una manipolazione tecnico-scientifica di quella stessa natura che si vorrebbe incontaminata e separata dalla civiltà umana). Siamo nel 2013, Stato di Washington, USA. 47 insieme ad un’altra lupa, forse una sorella, se ne vanno in giro libere (benché sempre sotto il vigile occhio del satellite che ne controlla gli spostamenti) per i boschi, finché «un giorno incontrarono un enorme cane da pastore della razza Akbash. Il compito di questa razza, dal pelo bianco e soffice, è proprio di scacciare i lupi; tuttavia, per qualche ragione, queste lupe e il cane non si videro come nemici e iniziarono ad andare in giro insieme» (Marris 2022, p. 74).
Prima di attraversare le avventure che seguono a questo incontro, proviamo a pensarlo attraverso le categorie umane: i lupi fanno parte della specie Canis lupus, mentre il cane appartiene ad una razza di un’altra specie, Canis lupus familiaris. Secondo il nostro pensiero specie diverse devono rimanere diverse e separate, e quindi non devono incrociarsi. Soprattutto quando si tratta del lupo, che nell’immaginario metafisico è l’animale selvatico per eccellenza. Dobbiamo mantenete la purezza della sua specie, e quindi evitare in tutti i modi che cani e lupi si incrocino (ma se possono incrociarsi, siamo proprio sicuri che appartengano a specie diverse?). È evidente che per la lupa e il cane non esistono né il concetto di specie e tantomeno quello di “purezza” genetica; ci sono due animali, per qualche ragione si piacciono, e si mettono insieme.
Il problema di questo incontro è che non si adatta alla nostra idea di che cosa sia la natura “selvaggia”. Infatti non è ammissibile che un cane ed una lupa si mettano insieme, perché in questo modo la purezza della specie dei lupi sarebbe contaminata, mentre noi – che amiamo la natura – vogliamo preservare la natura incontaminata (se in tutto questo ragionamento sentiamo puzza di fascismo forse sentiamo giusto: tutte le volte che si parla di “natura” e “specie” come entità la cui “purezza” va preservata la deriva fascista è sempre dietro l’angolo): «I funzionari statali non volevano che il cane ingravidasse una delle lupe: era in gioco l’integrità genetica della specie. […] Inoltre, i cani sono considerati una proprietà, mentre nel 2013 i lupi godevano dello status di “specie in pericolo” in tutto lo Stato. Le norme e i regolamenti che governavano la vita di questi due animali erano molto diversi e nessuno trattava con chiarezza la questione degli ibridi» (ivi, pp. 74-75). Da un lato c’è la vita, che non conosce frontiere di specie né identità genetica, dall’altra la politica e la scienza, che invece non fanno che tracciare confini e stabilire divieti.
In sostanza, i tre animali erano dei fuorilegge. Gli allevatori locali soprannominarono le due femmine Thelma e Louise. Il collare GPS di Louise (alias 47) consentiva di rintracciare con facilità il gruppo e, da un elicottero, le due lupe vennero colpite con dei tranquillanti. Entrambe vennero poi esaminate, mentre il cane osservava, furioso, abbaiando e facendo la guardia alle femmine. Thelma era incinta. Previo accordo con il Wolf Advisory Group (il comitato consultivo per il lupo), i funzionari catturarono di nuovo la lupa gravida, sempre da un elicottero, e la sterilizzarono, rimuovendo non solo l’embrione, ma tutti i suoi organi riproduttivi. […] Una sterilizzazione completa era più sicura e più semplice rispetto ad un aborto. Il cane venne restituito alla famiglia. Le due lupe continuarono a frequentare la zona. Pochi mesi dopo, Thelma venne investita e uccisa da un’auto (ivi, p. 75).
Il caso della lupa marchiata con il numero 47 e del cane di cui era rimasta incinta (rimane il caso di Louise; fra poco ci torniamo) è un caso esemplare: da un lato c’è la reale natura – che è sregolata e che non conosce barriere di specie né purezza genetica –, in questo caso lupi e cani che fanno muta, dall’altro la nostra idea di che cosa debba essere la natura. Secondo questa idea la natura è appunto incontaminata, cioè è separata dagli umani, è fissa (le specie non cambiano, e non ammettono, o meglio non dovrebbero ammettere incroci), senza storia. Per questa ragione una lupa non deve accoppiarsi con un cane, così come un cane (un animale domestico) non deve accoppiarsi con una lupa. Ogni specie è contraddistinta da una sua caratteristica identità (genetica), e questa deve essere preservata: «Nel febbraio 2015 Louise venne infine intrappolata e messa fuori combattimento da un tranquillante sparato da un elicottero. Fu trasferita al Wolf Haven International, un centro di recupero per lupi addomesticati e cani lupo vicino a Olympia, nello Stato di Washington. Qui trascorrerà il resto della sua vita, in cattività. È stata “parzialmente alterata”, in modo che non possa mai riprodursi. È in un recito insieme ad un maschio, anch’esso alterato, come compagnia» (ivi, pp. 76-77).
Se ora torniamo alla questione della agency animale, è evidente che le lupe e il cane sono agenti in senso pieno, dal momento che scelgono con chi stare, dove e come vivere. Non sono oggetti in balia dell’azione arbitraria degli esseri umani. Sono, in senso metafisico, dei soggetti. In questo caso gli esseri umani (i funzionari che devono proteggere la natura dalle interferenze della specie umana) interferiscono con l’agency animale perché, in ottemperanza a norme e regolamenti ecologici, ritengono di sapere meglio di quelle lupe e di quel cane qual è la giusta vita che devono vivere (la biopolitica comincia sempre come zoopolitica). È per salvare la natura che le lupe vengono fatte abortire e castrate: «I lupi, come simbolo della natura selvaggia sono così culturalmente importanti che noi esseri umani siamo disposti a compiere enormi sforzi per proteggere la purezza della specie, anche se ciò significa limitare la libertà dei singoli animali. Lo stato selvatico viene spesso descritto come ciò che non è controllato; ma – ed è un paradosso – al fine di proteggere la selvaticità del pool genetico del lupo, dobbiamo controllare i singoli lupi» (ivi, p. 78).
La triste storia della lupa marchiata con il numero 47 rende evidente che la natura ha sempre molte risorse, e che non sempre ha bisogno del nostro aiuto, per risolvere i problemi che noi stessi abbiamo prodotto (in questo caso, prima facendo estinguere una specie, poi cercando di reintrodurla nello stesso ambiente da cui l’avevamo fatta sparire). L’agency è diffusa nel mondo non umano, molto più diffusa di quanto il nostro pregiudizio antropocentrico e antropocenico ci permetta di vederla: «I nostri concetti di “natura” e “stato selvaggio” limitano tristemente le soluzioni che siamo in grado di immaginare» (ivi, p. 97). Questo non vuol dire che la specie umana (almeno, quella che fa parte della porzione ricca del mondo) non abbia responsabilità nei cambiamenti climatici a cui sempre più stiamo assistendo. Ammettere l’agency non umana non significa negare quella umana (da questo punto di vista lo stesso global warming mostra con evidenza l’agency dell’ecosistema chiamata “terra”). Il punto in questione è cominciare a pensare la natura come un interlocutore attivo, e non solo come l’oggetto delle azioni umane, buone o cattive che siano.
L’animismo 2.0 è la visione del mondo radicalmente non dualistica in cui tutte le entità sono agitate da potenze “vitali” intrinseche: animali, piante, pietre, venti, acque, e così via, il mondo è pieno di vita, ossia il mondo è popolato da una molteplicità di agenti, alcuni coscienti altri no, alcuni viventi in senso ordinario altri no, alcuni fatti di carbonio altri di altri materiali. In questo mondo non ci sono gerarchie, chi fa e chi subisce, chi è soggetto e chi è condannato alla posizione della vittima e dell’oggetto. La metafisica (anche quella ambientalista) è verticale, l’animismo è orizzontale, intrecciato e multiplo. La metafisica fissa il mondo nello zoo imbalsamato delle identità, mentre per l’animismo le specie cambiamo e si ibridano: infatti «la “specie” è un concetto umano più che una realtà biologica» (ivi, p. 255). La storia della lupa 47, allora, ci mostra un mondo pieno di vita, di una vita che le nostre categorie non prevede e non sopporta, una vita fatta di incontri (assembramenti) inaspettati, ma proprio per questa ragione vitali e pieni di potenzialità di innovazione. Se «l’unico modo per impedire alla vita di cambiare è ucciderla» (ivi, p. 346), l’animismo 2.0, al contrario, non teme il cambiamento e l’ibridazione. In fondo, qual è la lezione della pandemia causata dal virus Sars-Cov-2 se non che il virus è ormai parte di noi, e noi siamo parte del virus?
Insieme, organismi composti, trasferimento genico orizzontale e ibridazione creano un’immagine dell’evoluzione che opera non come un albero ramificato con un frutto perfetto, immutabile, a ogni estremità, ma come una rete fungina, con geni che scorrono sia lateralmente tra le genealogie, sia “verticalmente” da genitori a figli. Le specie si allontanano, si riavvicinano, spesso si fermano; a volte una ne inghiotte un’altra. Tutto ciò si allontana dalla metafora dell’albero e è molto simile alle reti complesse nel terreno delle foreste, un denso groviglio di micelio e radici e batteri, che si dividono e si uniscono e crescono l’uno dentro l’altro. Le specie che vediamo oggi non sono prodotti finiti. Al contrario, viviamo in un momento sospeso da qualche parte al centro di una narrazione in corso da miliardi di anni. Quando siamo tentati di impedire il cambiamento di una discendenza o di evitare l’ibridazione dobbiamo chiederci: stiamo davvero preservando la biodiversità con questi interventi o la stiamo ostacolando?
Emma Marris, Anime selvagge. La rigogliosa libertà del mondo non umano, Il Margine, Trento 2022.