Ancora un giorno di vita, ancora un tentativo di dare forma alla memoria. Questa volta il ricordo da animare – in senso letterale – è la guerra civile in Angola, e a farlo sono i registi Raúl de la Fuente e Damian Nenow con Ancora un giorno, film a cavallo tra documentario e animazione tratto dall’omonimo libro di memorie di Ryszard Kapuściński, pubblicato nel 1976 ed edito in italiano da Feltrinelli. Il film racconta la lotta per l’indipendenza dell’Angola che, una volta ottenuta quella dal Portogallo nel 1975, entra nel mirino delle grandi potenze della Guerra Fredda interessate ai giacimenti di petrolio presenti nella regione. Scoppia contemporaneamente un sanguinoso conflitto tra fazioni interne: l’MPLA, movimento di liberazione marxista-leninista sostenuto dall’Unione Sovietica, e l’UNITA, movimento anticomunista di destra che ottiene l’appoggio americano. In uno stato di totale “confusão” arriva sul posto Kapuściński, che in Angola diventa “Ricardo”, reporter della Polonia socialista deciso ad essere testimone in prima persona dell’assedio di Luanda. Fuggito da Hitler e da Stalin, corrispondente estero dell’agenzia di stampa Pap, una volta arrivato in Angola l’uomo decide di sfidare ogni buon senso partendo quasi subito, con l’aiuto del collega Artur Queiroz, per il fronte meridionale, dove il generale Farrusco conduce una resistenza già avvolta nel mito.
Kapuściński viene ricordato come il “Bruce Chatwin dell’Est”, il “principe del reportage”, protagonista del giornalismo di guerra che nel XX secolo si è tuffato nel cuore dei conflitti del Terzo Mondo. Da giornalista diventa progressivamente scrittore di viaggio, e l’esperienza in Angola è forse il passaggio decisivo: quel viaggio che, come il film sottolinea esplicitamente, trasforma il reporter in autore, il documento in vita vissuta, la testimonianza in partecipazione. Le sue pagine, e le immagini che da queste prendono vita, si soffermano su questo punto di svolta: il reporter, informato della decisione di Cuba di venire in aiuto dell’MPLA contro l’invasione sudafricana, non trasmette la notizia alla sua testata. “L’Angola verrebbe cancellata dalla faccia della terra”, gli dice Artur. E Ricardo, fedele alla causa socialista e ormai lontano dall’imparzialità – “il cinico non è adatto a questo mestiere”, come recita il titolo del suo libro sul “buon giornalismo” – si ferma. Decide con un gesto parte della sorte del Paese che lo sta ospitando e che ha aperto lui la sua Storia. Riparte dall’Angola – che riesce ad ottenere un provvisorio accordo di pace ma che sarebbe stata afflitta dalla guerra civile ancora per anni – consapevole di essere stato quel giornalista che con il suo lavoro ha “cambiato le carte in tavola”, come dicevano i suoi studenti a Varsavia.
De la Fuente e Nenow hanno deciso di tradurre il libro di Kapuściński in forme animate, mescolando queste ultime alle rare immagini d’archivio della guerra d’Angola, ad interviste ai vecchi sopravvissuti e a riprese dell’attuale Luanda e della regione che la circonda. Lo stile dell’animazione è quello realista della graphic novel, realizzato attraverso la tecnica del “rotoscopio”, ovvero il ricalco del disegno sul vivo movimento degli attori con una camera immersa (lavorato ormai con tecnologie computerizzate). Le forme animate occupano gran parte della pellicola interagendo in modo costante con le immagini reali, che irrompono molto presto sullo schermo con la danza di un gruppo di ballerine africane nella Luanda di oggi, sfatando la prima impressione di uno spettatore che già stava abituando gli occhi ad una dimensione narrativa lineare e presentata in “sostituzione” della realtà.
Perché affidare la memoria all’animazione? “This is a lesson drawn from history”, dice il reporter all’inizio del suo viaggio, giocando forse con il doppio senso del verbo to draw in inglese: “trarre”, “attirare”, ma anche “disegnare”. La storia e le tracce del ricordo che essa porta con sé vengono traslate in una dimensione altra, quella del disegno, formalmente vicino alla rappresentazione della realtà ma in sostanza ad essa alternativo. Negli ultimi anni questo è accaduto spesso, per citare gli esempi più noti: Persepolis di Marjane Satrapi (2007), Valzer con Bashir di Ari Folman (2008), La strada dei Samouni di Stefano Savona (2018). Tutti film, come Ancora un giorno, sulla guerra: la Rivoluzione iraniana del ’78, il massacro di Sabra e Shatila dell’82, la strage di Gaza del 2008.
Jan Assmann, nel suo libro La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (1992), distingue una memoria “comunicativa” – quella derivata dall’interazione personale con un soggetto narrante che garantisce l’esperienza raccontata, dunque una dimensione organica della memoria – e una memoria “culturale” – quella affidata a processi di estrinsecazione e oggettivazione del passato (all’interno di simboli, riti sociali, istituzioni), dunque una dimensione mediale della mnemotecnica.
Documentare (in senso filmico) un’esperienza vuol dire necessariamente proiettare uno dei due livelli sull’altro, far aderire il soggettivo all’oggettivo, o viceversa. Il documentario classico sceglie normalmente di partire dal primo tipo di memoria, il racconto personale, trasformando quest’ultimo in un racconto “universale”, a più mani e a più direzioni, oggettivandolo attraverso una tecnica che lo fissi in uno schema narrativo esposto al suo “intorno”. Una tendenza strettamente contemporanea sembrerebbe affidarsi, invece, ad un percorso inverso: quello cioè che parte da una memoria già culturalmente oggettivata, un’immagine d’archivio ad esempio, riadattandola ad un racconto ad essa estraneo, spesso di carattere intimo. In entrambi i casi – e forse il secondo si sta dimostrando vincente – ciò che si cerca di fuggire è la messa in scena della propria storia da parte di un soggetto chiuso entro i limiti del suo punto di vista sugli eventi narrati.
La memoria animata dal disegno, fatta eccezione per l’uso ricorrente anche nei film sopracitati del materiale di repertorio, sembra collocarsi dentro il primo percorso, quello caratterizzato da un racconto soggettivo che diventa testimonianza storica in un oggetto ricostruito, rimontato, ri-tracciato, insomma un dato artificiale e, mai come nel disegno animato, “artificioso”. Ma c’è una peculiarità: l’oggetto-animazione è un oggetto più che mai ancorato ad una soggettività creativa, narrante. Difficilmente sarà materia mnestica istituzionalizzata, protesi documentaria in sé autonoma.
Che cos’è allora che spinge questi registi a ricordare e a documentare attraverso le forme animate? Se Persepolis è un caso più canonico e più “semplice” in quanto film interamente animato con protagonista una bambina e poi un’adolescente (in un più classico punto di vista quasi pedagogico da romanzo di formazione), e La strada dei Samouni utilizza l’animazione per colmare il vuoto di immagini reali mancanti e solo narrate (quelle del massacro di Gaza), Valzer con Bashir e Ancora un giorno sembrerebbero essere accomunati da un’intenzione diversa: utilizzare l’animazione per riattivare il trauma di un vissuto duplicandone l’esperienza primigenia, rielaborandola in una forma evidentemente artificiale.
In altre parole, l’animazione si fa reenactment. Intendiamo questo termine nel suo essenziale significato di “rievocazione”, non necessariamente legato a pratiche concrete di “incorporazione” come quelle mostrate dal regista Harun Farocki nella sua serie Serious Games (2009-2010). I militari iracheni filmati da Farocki vestivano tecnologie che facevano rivivere loro le esperienze traumatiche del fronte in realtà virtuale (o li allenavano preventivamente al trauma). Folman e De la Fuente riproducono l’esperienza vissuta in prima persona dal cineasta (nel primo caso) e dal reporter (nel secondo) nel livello altro del racconto animato, affinché la realtà si risolva nella dimensione narrativa del disegno, l’organico si traumatizzi una seconda volta nell’artificio.
La “fusione di orizzonti” tra un presente e un passato trans-storico da riattualizzare – di cui parlava Gadamer –, potrebbe forse trasformarsi in questo caso in una “duplicazione di orizzonti”, laddove il passato viene duplicato in un’animazione che non si fonde al presente, va invece in suo soccorso. Non a caso in entrambi i film il disegno prende in carico, insieme alla duplicazione del reale, moti interiori dei protagonisti: scene oniriche, incubi, dialoghi immaginari. Se in Valzer con Bashir tutto questo viene esplicitato nell’iniziale oblio del cineasta che cerca di far riaffiorare i propri ricordi del Libano, in Ancora un giorno la questione si fa meno evidente ma più sottile. La realtà non irrompe a sorpresa solo negli ultimi minuti della pellicola (come nel film di Folman), ma dialoga costantemente con il livello dell’animazione attraverso riprese di paesaggi attuali che ricordano il loro doppio fatto di macerie, parole degli intervistati – il cui nome compare a fianco dei corrispettivi animati – che tentano di tornare immagini per vivere una nuova elaborazione.
«Assicurati che non ci dimentichino», dice la guerrigliera Carlota a Ricardo poche ore prima di morire. Le vittime dei massacri chiedono al reporter di essere fotografate da vive pochi istanti prima di spirare. Anche le parole di Kapuściński, digitate su tasti della macchina da scrivere che non fanno che saltare disperdendole e frammentandole, chiedono al film di potersi riappropriare di se stesse in un’altra forma. Chiedono di essere portate in ri-animazione.
Riferimenti bibliografici
J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997.
H-G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2001.