Quando nel 1954 György Lukács pubblicava il suo fondamentale testo La distruzione della ragione, il pensiero di Nietzsche stava vivendo il momento più impopolare della sua storia novecentesca. Da un lato considerato una sorta di precursore del nazismo (grazie soprattutto alla sorella Elizabeth), dall’altro come un «anti-Marx» (Lukács) – ovvero il massimo esponente di quel pensiero borghese che aveva voltato le spalle all’umanesimo in nome di un irrazionalismo anti-illuminista, anti-idealista e anti-marxista –, Nietzsche era, tanto a destra quanto a sinistra, il più grande avversario della filosofia. Esattamente dieci anni dopo, nel 1964, Gilles Deleuze organizzava nell’Abbazia di Royaumont il primo convegno della cosiddetta «Nietzsche Renaissance», inaugurando quella lunga e eterogenea fase storica della filosofia continentale che, soprattutto a partire dagli anni ’70, prenderà molti nomi, tra cui quello di «biopolitica». Ribaltando quanto pensato dal marxismo ortodosso di Lukács, Nietzsche diventava il nume tutelare su cui rifondare un pensiero di sinistra in grado di dare voce alla contro-cultura di quegli anni, superando il modello dello storicismo hegeliano e proponendo una lettura antisostanzialista e antimetafisica della realtà che si contrapponesse a quella della ragione storica e delle sue procedure dialettiche, che ricomprendevano la differenza nell’uguale, la moltitudine nella totalità.
Dentro questa grande e significativa costellazione del pensiero della sinistra novecentesca (francese e non solo) ci sono state ovviamente numerose eccezioni. Una delle più importanti è certamente quella di Alain Badiou. Chiunque conosca, anche solo sommariamente, il pensiero di Badiou sa che non potrebbe esserci prospettiva più distante dal nietzschianesimo novecentesco e dai suoi epigoni in questo nuovo secolo (si pensi, con enormi differenze, a Toni Negri o Giorgio Agamben). Basti considerare, solo per fare un esempio recente, la posizione agli antipodi che hanno assunto Badiou e i biopolitici contemporanei sul tema del Covid (il primo accettando, anzi promuovendo, le procedure di controllo statuali, i secondi rifiutandole praticamente in toto).
Eppure Badiou ci ha già abituati a questa volontà di “riappacificarsi” con i propri “nemici” storici. L’aveva fatto con Deleuze in un bellissimo, ma alquanto problematico, saggio del 1997 (Deleuze. La clameur de l’Être), in cui l’autore di Differenza e ripetizione veniva “salvato” come filosofo dell’unità dell’essere (seppur pensata antidialetticamente nella differenza). Ora sembra giunto anche il turno di Nietzsche.
In realtà il testo di cui parliamo – pubblicato in Francia per la prima volta nel 2015 e arrivato ora in Italia per Mimesis con l’ottima cura e traduzione di Claudio D’Aurizio (autore anche dell’Introduzione) e la Postfazione di Stefano Oliva – è la trascrizione di una serie di seminari tenuti da Badiou presso l’École Normale Supérieure di Parigi nei lontani 1992-1993. E proprio negli anni ‘90 origina l’urgenza di questa personale rivalutazione di Nietzsche, a seguito della pubblicazione nel 1991 del testo Perché non siamo nietzschiani da parte dei cosiddetti «nouveaux philosophes». Precisamente per distanziarsi dagli ex compagni della «Gauche prolétarienne» poi divenuti paladini del neoliberalismo, Badiou comincia a studiare Nietzsche a fondo, si immerge nella sua forma mitico-utopistica, mette da parte per un momento il suo fervore platonista, ricusa la sua strenua fiducia nella filosofia come «tenutaria del vero» e «intermediaria tra incontri di verità».
E che cosa scopre esattamente? In primo luogo che Nietzsche è un «antifilosofo» esattamente come lo sono San Paolo e Lacan, ovvero colui che ha avuto il merito di tentare di afferrare l’«indicibile», di liberare il pensiero dal discorso filosofico, dalla sua retorica accademica, per riconsegnarlo all’«atto», alla pura vita. Questa tensione antifilosofica di Nietzsche, pur essendo per Badiou problematica e non interamente condivisibile, sfida la filosofia a superare se stessa, a non rifugiarsi sulla terra ferma delle certezze epistemologiche, della correttezza logica e dialettica di ogni enunciato, per esplorare il mare aperto delle grandi questioni universali della realtà (che deve provare a cogliere a costo di contraddizioni e indeterminazioni). In secondo luogo, che Nietzsche oltre a essere un nome proprio è una vera e propria categoria del pensiero. Una categoria segnata dalla presenza ingombrante dell’“io” antifilosofico di Nietzsche stesso, che scavalca la dimensione oggettiva del linguaggio, la singolarizza per riportarla alla sua prospettiva soggettiva. Il tratto principale di questa singolarizzazione è quello che Badiou chiama l’«arci-politico». L’«arci-politica» nietzschiana consiste, tra le altre cose, nel rifiuto radicale di ogni forma di sovranità, nella concezione secondo cui ogni determinazione dell’impianto metafisico statuale (anche se apparentemente neutro) corrisponda a una violenza sull’umano, sul suo essere una «creazione e non uno stato di cose» (da cui il fondamento della biopolitica foucaultiana).
L’atto «arci-politico» per eccellenza è quello rivoluzionario: «far fuoco fino a dividere in due la storia dell’umanità». Eccoci dunque di fronte al filosofo del martello, che universalizza in termini filosofici un’istanza soggettiva, producendo quell’impianto ideologico da cui scaturirà il nietzschianesimo di sinistra novecentesco, secondo cui l’atto rivoluzionario non è l’adesione al procedere dialettico della Storia (con i suo scarti positivistici o messianici) ma una forma di insubordinazione radicale nei confronti dell’inautenticità dei dispositivi di potere razionali e statuali (di cui Badiou è invece uno strenuo sostenitore).
L’ultima parte dei seminari è dedicata al rapporto tra Nietzsche e Wagner e al cosiddetto concetto di «grande arte», che Badiou ha in seguito approfondito in un volume intitolato Cinque lezioni sul caso Wagner (uscito in Italia nel 2011). Si tratta forse della parte più interessante della riflessione badiousiana, in cui questo aspetto cruciale di tutta la filosofia moderna è riconsegnato grazie a una lettura illuminante e in parte meno contraddittoria di quanto riportato in precedenza. Il «caso Wagner» è infatti il prisma attraverso cui leggere tutto il rapporto conflittuale tra filosofia e anti-filosofia di cui Nietzsche è l’esponente principale. Per Nietzsche Wagner è colui il quale ha prima riproposto il tema della grande arte a partire da un recupero del tragico «dallo spirito della musica», e successivamente l’ha negato attraverso la «teatralizzazione», ovvero la sua resa dialettica e filosofica nel discorso. Da erede di Eschilo Wagner è divenuto l’erede di Euripide, riassumendo in sé la razionalità moderna, riportando il dionisiaco nell’apollineo, il principio vitale nel logos e abbracciando dunque la razionalità socratica.
Anche qui però certi punti dell’analisi di Badiou risultano sorprendenti, soprattutto se letti in controluce con le Cinque lezioni sul caso Wagner o la sua Rapsodia per il teatro. Se lì Wagner era difeso dalle pretese di Adorno di riportarlo sotto il cappello della sua «dialettica negativa», o dalla critica di Lacoue-Labarthe alle sue «tendenze totalizzanti», qui la «teatralizzazione» è accettata come sintomo dell’«impostura» wagneriana, del suo aver «asservito la questione della grande arte alla ricerca dell’effetto teatrale».
Sarebbe un discorso troppo lungo da affrontare ora. Ma di alcune riflessioni del filosofo e drammaturgo platonista che ha altrove esaltato il teatro più di ogni altra pratica umana (in nome della sua prossimità con la filosofia, della sua capacità di tradurre nell’istante storico il portato universale dell’idea), in queste pagine sembrano perdersi le tracce.
A. Badiou, Nietzsche. L’antifilosofia 1. Seminario 1992-1993, a cura di Claudio D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine 2022.