Riprendendo ed espropriando un’espressione prima di Kant e poi di Derrida, sembra si possa dire con una certa fondatezza che si è assunto di recente un tono anarchico in filosofia (Kant 1991; Derrida 2020). Un tono che attraversa molti dei «più importanti filosofi continentali del XX secolo» (Malabou 2024, p. 13) senza purtuttavia risolversi in nessuno di essi. Un tono ambiguo, quasi patinato d’opacità. Tra questi autori si manifesta indubbiamente il problema della decostruzione del «paradigma archico», ovvero quella struttura concettuale – il conio è di Derek C. Barnett – che in ambito primariamente filosofico impernia sin dalle origini del pensiero occidentale il sodalizio inveterato tra potere come governo e sovranità statuale attorno alla questione dell’«arkhé». Il pensiero, un certo pensiero, giunge infine a riconoscere la dignità ontologica dell’anarchia.
Ma sembra persistere un che di residuale, un disavanzo che tradisce per contrasto la parzialità anche dei più verbosi liricismi sulla fine dei principi. Una sorta di inconcludenza, se è lecito dire. Questo perché invero la filosofia si attarda per lo strascico di un furto, per la sua scarsa maneggevolezza con ciò che in prima istanza non le appartiene. Si potrebbe chiedere: stante il rilievo ontologico dell’anarchia, che ne è dell’anarchismo? Il quadro d’inscrizione è chiaro e Malabou lo è altrettanto: «Quello che voglio mettere qui in questione è il mancato esito anarchico dei concetti filosofici dell’anarchia» (ivi, p. 9). La filosofia è la rapinatrice, l’anarchismo il rapinato.
Un non detto che è al contempo un non dire: una denegazione freudiana (ivi, pp. 35-39). Un oblio dagli esiti largamente problematici, non tanto in ordine al mancato riconoscimento di un’eredità di lunga data, ma piuttosto in quanto paradossale ipoteca che finisce per calare sull’anarchismo come prassi politica effettiva. «Pensare filosoficamente l’anarchia è in larga parte consistito nel sovvertimento della legittimità dell’anarchismo» (ivi, p. 357). Certo, non si tratta di una colpevolizzazione, un’ostensione moralizzante: la «riserva dei filosofi», rispetto alla reale possibilità di modi di esistenza al di là del governo, «è senza dubbio in buona misura inconscia» (ivi, p. 37).
Ma, allora cosa trarre da tutto ciò? Che si tratti di un problema strettamente politico, di estromissione della filosofia, come vuole Tomás Ibáñez, dal dominio dell’anarchismo? (ivi, p. 20). Non esattamente. Il problema, che è il cuore stesso delle aporie del nostro tempo, si pone piuttosto nel mezzo, in quella divaricazione che è un fondamentale «evitamento» (ivi, p. 21) reciproco tra anarchia filosofica ed anarchismo politico. Né intellettualismo formale, né militanza politica indifferente a questioni di principio, ma piuttosto «ambiguità teorico-pratica», come a Vattimo piaceva tratteggiare il carattere dell’etica nietzschiana (1994, p. 198). Stare nel mezzo, dove incessantemente si dà l’esistenza.
Per questo si può dire che il problema di Malabou sia anzitutto quello dello statuto anarchico dell’attualità. È infatti dell’anarchia che ne va nell’essere, nel mondo che abitiamo e che diviene progressivamente sempre più difficile cogliere nelle sue strutture, nelle sue disparità e asettiche noncuranze. Un mondo in cui orizzontalità e verticalità del potere sembrano cortocircuitare. In cui la crisi dei grandi Stati, dei sistemi assistenziali e delle annesse strutture pubbliche, sembra riversare tutti su di un piano la cui innaturale levigatura risulta disorientante, scarsamente umana. Questo fenomeno evidentemente coincide con la «svolta anarchica del capitalismo» (Malabou 2024, p. 11).
Eppure, è questo un mondo in cui si assiste al contempo «a un rafforzamento globale del dirigismo politico, inseparabile da una nuova forma di centralizzazione del potere economico» (ibidem). Come se ogni evento – foss’anche un’enorme schematizzazione – dispiegandosi su di un piano cartesiano, seguisse una traiettoria sempre descritta da equazioni a due incognite: un’ordinata sovrana e un’ascissa anarco-capitalista. Un miasma che aveva suscitato perplessità, se non ristagno concettuale, già in Foucault (2005, pp. 13-48).
Strappare l’anarchia a questo «anarchismo di fatto» (Malabou 2024, p. 10), questa falsa orizzontalità tutta nutrita degli squilibri di un’economia tardo-capitalista la cui specificità non sta nell’aver espunto l’aggravio dell’esercizio verticale del potere dalle dinamiche sociali, ma piuttosto nell’averlo radicato in un’intelaiatura piana che ne garantisce una legittimazione capillare, un’estetica flessibile e smart. Il nome che Malabou dà allo iato che divide queste due facce del foglio è «non-governabile». «Per aprire la discussione, propongo di introdurre, come domanda e non come soluzione, il concetto di non-governabile come punto d’incontro, di lavoro comune fra anarchia/anarchismo filosofico e anarchismo politico» (ivi, p. 40). Dunque, il verdetto.
Schürmann. «Non si può più essere anarchici» (ivi, p. 356). Il rilancio estremo della Destruktion heideggeriana si arena dove la meta-narrazione tipicamente occidentale da filosofia della fine della storia diviene un’incomprensione tutta formale dell’alterità dell’impero inca e della sua violenta incorporazione per mano di Pizarro. Un fenomeno letto da Schürmann nei semplici termini di successioni di sistemi dominio in una sincopata sequenza di dagherrotipi presunt(uos)amente ricavati dalla stessa impressione metafisica.
Lévinas. «Non si può essere anarchici» (ibidem). La metafisica non si riduce mai all’ontologia, traccia una trascendenza che per questo fatto stesso non può che essere an-archica. Un’apertura che è ad un tempo etica in quanto gettata dall’esterno, dal radicalmente Altro (ivi, p. 114). Ma questa an-archia si dimostra invero sin troppo raffinata, dalle implicazioni politicamente grottesche. In Lévinas, infatti, «uno Stato, può essere visto, senza nessuna contraddizione, come un ponte gettato verso l’anarchia» (ivi, p. 133). La stessa schiavitù, che funge da orpello concettuale di primo piano nell’impalcatura filosofica levinassiana, «non ha nulla a che vedere con la realtà del sistema giuridico e sociale oggetto della schiavitù» (ivi, p. 134), e si presenta come volume cavo al cui interno non riecheggia altro che uno schiavismo atavico.
Derrida. «Non si può essere anarchici» (ivi, p. 356). L’anarchia sembra essere anche nel pensiero derridiano il fulcro di una leva filosofica che si fa titanicamente carico del peso di un mondo. Ne è testimonianza il serrato dialogo con l’opera di Freud (ivi, p. 150), che assume nel fondo i tratti della domanda: «L’al di là del principio è l’al di là del potere o l’essenza del potere?» (ivi, p. 152). La risposta sembra infine arrivare nella concretezza un po’ stantia del carattere fondamentalmente indecostruttibile di cui Derrida investe le democrazie rappresentative occidentali: indecostruttibile è anche la pulsione di potere. In lui, nemmeno per un istante, si palesa un’anarchia «che non sia né una repubblica sadomaso, né una terra promessa» (ivi, p. 181).
Foucault. «Non si può essere anarchici» (ivi, p. 356). Se il vero non-governabile va cercato, contro la vulgata, nell’ultimo Foucault, quello apparentemente ritrattosi tra le rovine dei templi attici, l’ontologia storica di noi stessi, che trova nei cinici il proprio apogeo, manca ancora il non-governabile proprio nell’atto stesso di dispiegarlo, quando la ricerca di Foucault con la sua morte si arresta. Il passaggio ulteriore è il rovesciamento di cui Malabou si assume le conseguenze: «L’anarchismo è l’esperienza limite della politica» (ivi, p. 236). L’anarchia è il giro di boa della soggettivazione come piano del non-governabile.
Agamben. «Non si può essere anarchici» (ivi, p. 356). Se in Schürmann è l’essere a squalificare l’anarchismo, in Agamben questo servizio è ironicamente svolto dall’anarchia. Se occorre, come vuole Agamben, che l’anarchismo si erga al di là della trasgressione, cosa ne rimane esattamente? Un catasto di microfratture. Se la disattivazione dei meccanismi di separazione della forma-di-vita è inevitabilmente sempre agita (ivi, p. 185); se la restituzione politica della deflazione simbolica del sacro si limita ad ancorare il sacro stesso ad una nuova iper-significazione, ovvero il meccanismo d’eccezione (ibidem); se la potenza dev’essere strappata all’esuberanza dell’atto e la forma-di-vita restituita all’impotenza, eppure Aristotele qualifica nella Fisica II l’assenza di atto come «assenza di forma» (ivi, p. 186), il ponteggio dell’anarchia inoperosa di Agamben non può che reggere per magia, per l’«argomento magico» della «zona» (ivi, p. 187).
Rancière. «Non si può essere anarchici» (ivi, p. 356). «L’anarchismo è l’indifferenza rispetto alla sfera governamentale» (ivi, p. 308). Rancière fa della politica, pur coincidente con l’anarchia, un’uguaglianza radicale che, incapace di farsi arkhè, «può essere solo ogni tanto» (ivi, p. 309). Dove rinvenire le ragioni di questo esito? Il bandolo è piuttosto decentrato, dislocato nell’estetica. La «denegazione dell’anarchismo» s’innesta «in questa concezione del valore foronomico dell’estetica» che separando «politica e polizia», consente «di fornire all’uguaglianza radicale la propria espressione»: «Sostenendo che l’anarchia può sfuggire alla polizia solo rendendosi presentabile nell’ordine estetico, Rancière fa il poliziotto» (ivi, p. 312).
Il grosso di Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine Malabou (tradotto e pubblicato per i tipi di Elèuthera) si sviluppa, in termini quantitativi, attorno a questi sei pensatori. Ma soffermarsi sui punti tecnici, i profili specifici, peraltro magistrali per chiarezza e finezza d’analisi, potrebbe mancare di rilevare lo spessore qualitativo di questo lavoro, ovvero l’idea che la filosofia aprendo la strada fondamentale del ripensamento dell’essere alla luce dell’anarchia, ha mancato di vedere che il senso di tale questione è l’anarchismo. Insensibile al non-governabile, scivolando la filosofia, l’essere manca la propria stessa questione (ivi, p. 358). Posizione di problemi e assenza di soluzioni, si dirà. Poco male. I dubbi squadernati dal lavoro di Malabou sono «già dei sentieri verso altri modi di condividere, di agire e di pensare. Di essere anarchici» (ivi, p. 370).
Riferimenti bibliografici
J. Derrida, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia, edizione rivista a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2020.
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005.
I. Kant, D’un tono da signori assunto di recente in filosofia, in Scritti sul criticismo, a cura di G. De Flaviis, Laterza, Bari 1991.
G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1994.
Catherine Malabou, Al ladro! Anarchismo e filosofia, Elèuthera, Milano 2024.