“Questa cosa non ha limiti!”, dice Phil Knight a Magic Johnson nel settimo episodio della prima stagione di Winning Time – L’ascesa della dinastia dei Lakers (2022). Siamo nel 1979 e il CEO di Nike sta cercando in tutti i modi di convincere la giovane stella dell’ultimo Draft NBA a indossare un prototipo di scarpe progettate espressamente per lui: le Nike Magic. Il grande rifiuto di Johnson (“uno dei grossi rimpianti della mia vita”, avrebbe poi detto) fa rimandare solo di qualche anno la scalata definitiva dell’azienda di Portland ai vertici del mercato delle calzature sportive. Cinque anni dopo, infatti, sarà la giovane matricola Michael Jordan ad accettare un contratto molto simile. Il resto è storia.
Ecco allora, il link immaginario che unisce la notevole serie di Adam McKay con questo Air (diretto da Ben Affleck che si ritaglia proprio il ruolo di Phil Knight) è sin troppo evidente. Entrambi i prodotti ragionano sulle implicazioni di un decennio decisivo per la nascita di molti paradigmi culturali legati alla società dello spettacolo, assumendo il basket professionistico (e la costruzione delle immagini delle sue star più note) come grande metafora dei rapporti di potere del tardo capitalismo.
Certo, come molti altri prodotti targati McKay (da Anchorman a La grande scommessa) Winning Time fa confliggere la retorica dell’american dream con una forte problematizzazione dei personaggi, immergendosi nelle loro ambiguità morali e zone d’ombra come nel Fincher di The Social Network. Una tensione quasi del tutto assente nel film di Affleck con le vicende del visionario manager Sonny Vaccaro (Matt Damon) e dell’eclettico imprenditore Phil Knight tratteggiate come la divertente rivincita di un gruppo di bonari loser che si scontrano con i giganti del settore (Adidas e Converse) vincendo la battaglia alla maniera di un Jerry Maguire. Pertanto, il racconto della nascita delle “Air Jordan” e di un contratto rivoluzionario (la compartecipazione dei profitti da parte dell’atleta-imprenditore di sé stesso) diventa solo l’agiografica celebrazione delle origini di una multinazionale? Non proprio.
Air – La storia del grande salto è un film co-prodotto da Amazon Studios insieme agli stessi Ben Affleck e Matt Damon, in un interessante incontro tra le esigenze di prodotto delle piattaforme OTT e il tentativo di far sopravvivere a vari livelli le icone popolari degli anni ottanta e novanta (vedremo tra poco l’indiretta tensione autobiografica del film). Del resto, il docu-drama associato a un brand sportivo riconoscibile è un filone oggi ampiamente sfruttato dalle piattaforme (pensiamo allo stesso Jordan di The Last Dance). Ed è in questo discorso sul contemporaneo che si inserisce virtuosamente Air, rivendicando gli statuti del cinema come interfaccia interpretativa privilegiata.
Al di là delle linee d’azione dei personaggi delineate in una sceneggiatura senza troppi chiaroscuri, infatti, non tutto ci appare così acritico. Affleck e Damon dilatano a dismisura i tempi delle epifanie emotive infondendo nei loro personaggi un’umanità traboccante e scivolando pian piano sui territori più indisciplinati del buddy movie. In questa dilatazione sentimentale si innesta anche il discorso sulle immagini e sulla loro interpretazione: Vaccaro è ossessionato dalla VHS della partita universitaria tra North Carolina e Georgetown dove il giovanissimo Michael Jordan segna il punto decisivo all’ultimo secondo. In quelle immagini c’è qualcosa di epico che va oltre il gesto tecnico contingente, uno squarcio di futuro nascosto nei dettagli dell’inquadratura per cui val la pena di investire tutto.
L’esaltazione dell’analisi critica sulle immagini mediali come centro propulsore di ogni strategia industriale e di ogni scommessa personale è il tratto più interessante del film. Già la sequenza iniziale inanella una serie di prelievi iconici del 1984 montati sotto il travolgente riff di chitarra di Money for Nothing dei Dire Straits: il sorriso di Eddie Murphy, il ghigno dei Ghostbusters, Supercar, gli A-Team, il celeberrimo primo spot Apple Macintosh targato Ridley Scott, ecc., quindi cinema, serie, spot, canzoni pop, eventi planetari, per raccontarci lo spirito del tempo. Affleck mette in scena continui scarti – Michael Jordan sempre ripreso di spalle per poi balenare improvvisamente dalle tracce archiviali – in un flusso indistinto di immagini che proprio in quel fatidico 1984 avrebbero iniziato a diffondersi in maniera virale (l’immissione sul mercato del primo personal computer, appunto). Scarti e interruzioni del flusso che servono a esaltare i tempi lunghi della riflessione come nei faccia a faccia e nelle telefonate con la signora Deloris Jordan interpretata magnificamente da Viola Davis.
Insomma, gli anni ottanta e novanta visti come ultima era propulsiva della società statunitense, dove le utopie verso il futuro si potevano ancora immaginare e dove il cinema era parte integrante di questo dibattito pubblico. Anche e soprattutto il cinema medio che Affleck omaggia sin dai tempi di Gone Baby Gone: Air sembra veramente un film di Richard Donner o Martin Brest (con la colonna sonora di Beverly Hills Cop citata a più riprese). Una potente tensione retrotopica che racconta molto dell’incapacità dell’industria dell’intrattenimento odierna di creare nuovi immaginari condivisi.
Affleck e Damon, del resto, sono stati giovani sceneggiatori premio Oscar nel 1998 (con Will Hunting – Genio ribelle) e subito dopo star planetarie da blockbuster. Air è anche la loro storia, pertanto. Ossia la storia delle sopravvivenze dei segni dell’ultima grande stagione cinematografica che ha saputo apportare una rivoluzione nelle forme dell’audiovisivo (gli anni di Kevin Smith, Gus Van Sant e Tarantino), oggi totalmente appannaggio degli ambienti mediali interattivi. E allora, concepire nel 2023 un film di pura evasione e intrattenimento come campo di indagine sulle origini della nostra cultura visuale è una «cinema speculation», per citare ancora Tarantino, tutt’altro che banale.
Air – La storia del grande salto. Regia: Ben Affleck; sceneggiatura: Alex Convery; fotografia: Robert Richardson; montaggio: William Goldenberg; interpreti: Matt Damon, Ben Affleck, Jason Bateman, Marlon Wayans, Chris Messina, Chris Tucker, Viola Davis; produzione: Amazon Studios, Mandalay Pictures, Skydance Media; distribuzione: Warner Bros.; origine: Stati Uniti d’America; durata: 112′; anno: 2023.