Nel prolungato buio che accompagna i titoli di testa del film, ascoltiamo i suoni meccanici di una videocamera in funzione. Un nastro viene inserito e improvvisamente l’immagine rivela l’opacità di un video amatoriale: un giovane uomo è al centro del quadro, ripreso da una bambina di cui ora sentiamo soltanto la voce. La piccola – immagine infantile di una sagoma adulta che riusciamo a scorgere nel riflesso di uno schermo che media per noi le immagini video – dice all’uomo che vorrebbe intervistarlo, ma questi sembra improvvisamente incupirsi, così come la sua stessa immagine, repentinamente inseguita da uno zoom che si lancia in avanti tramutandone i tratti del volto in quelli di un’ombra indefinibile, velata e in controluce. Il video si arresta per un attimo, una musica extradiegetica fa il suo ingresso, mentre vediamo ancora il riflesso della donna agitarsi e poi il nastro riavvolgersi. Alle immagini in rewind che si mischiano in un grumo di pixel, si alternano più volte quelle in 35mm di un’altra sequenza dove, nel buio di una affollata sala da ballo rischiarata da luci intermittenti, è ora un carrello in avanti a procedere verso una donna immobile, in piedi e a occhi chiusi. Un piano americano iniziale, poi un primo e infine un primissimo piano che, improvvisamente, rivela lo schiudersi di uno sguardo.

La straniante suite d’apertura di Aftersun (2022) esibisce sin da subito i precipui movimenti di senso del film e, insieme, le ragioni del suo stesso funzionamento poietico. Tra cinema e video, lo straordinario esordio della scozzese Charlotte Wells – distribuito in Italia da MUBI – si configura infatti come un dispositivo memoriale e affettivo preso in un movimento speculare, teso da un lato verso un passato rievocato a partire dalle tracce video-amatoriali (il rewind), e dall’altro, in avanti (lo zoom, il carrello), in direzione di un faticoso riavvicinamento emotivo alla figura del padre (la reiterata ed enigmatica sequenza del rave club). Il principale movimento diegetico del film (la vacanza in Turchia, la “storia”) pare essere dunque in tal senso del tutto “secondario”, e non si esaurisce nelle forme di un flashback legato a «un determinismo senso-motorio [che] non fa che assicurare la progressione di una narrazione lineare» (Deleuze 2017, p. 58), bensì – partecipe di un più ampio procedimento configurativo – acquisisce la consistenza di un’immagine-ricordo, enigmatica, imprecisa, inafferrabile.

Attraverso la costruzione di una temporalità complessa (in cui passato e presente si sovrappongono rivelando il divenire di un tempo puramente affettivo) Aftersun non vuole dunque costruire il racconto di un tempo irrimediabilmente perduto, ma punta piuttosto a rivelare l’ineffabile intensità di una relazione che si definisce in «legami […] che non sono più senso-motori e che mettono i sensi liberati in rapporto con il tempo, con il pensiero» (ivi, p. 22). Se da un lato, sul piano dell’intreccio, non succede quasi nulla ai protagonisti del film – vacanzieri per definizione votati all’inazione o visionari presi in una reminiscenza che è segno di una «soggettività [che] acquista un nuovo senso, non più motorio o materiale, ma temporale e spirituale» (ivi, p. 57) –, bisognerà d’altra parte osservare come Aftersun realizzi, più in profondità, un’architettura ottico-sonoro in cui «il personaggio o lo spettatore, e tutti e due insieme, divent[a]no visionari» (ivi, p. 24).

È in tal senso che la decostruzione dei meccanismi dell’azione viene direttamente tematizzata dal film, in una delicata torsione autoriflessiva che frustra ripetutamente le aspettative spettatoriali, alludendo alla possibilità – sempre disattesa – che qualcosa di funesto possa improvvisamente scuotere gli sviluppi della trama. Ma la catastrofe imminente (lo scherzo dell’agguato a Sophie, il disperato bagno notturno di Calum, lo spettro inquietante – l’alcol, il sesso – che avvolge le immagini degli adolescenti) può soltanto essere evocata e accedere al visibile nelle forme allucinatorie della premonizione, come nel caso dell’illusione ottica e sonora (opportunamente disposta dal posizionamento della macchina da presa e dai rumori del clacson e della brusca frenata) che trasforma l’attraversamento stradale di Calum in un presagio di morte, tragedia scongiurata sul piano narrativo eppure già sancita dal successivo “cartello” (Game Over) impresso sul monitor di un videogame.

Al di là della trama, sono dunque immagini e suoni, corpi e oggetti, a reagire negli accostamenti di montaggio delineando traiettorie di significato (avvicendamenti, separazioni, solitudini) che scavano i limiti (porosi) del quadro. Una poetica di corpi e di gesti, dunque, colti in una pregnanza materica capace di dischiudere al contempo una temporalità altra, come suggerisce d’altronde lo stesso titolo dell’opera, radicale sineddoche di questa duplice tensione compositiva. Potremmo dire, infatti, che il film altro non è che il racconto di un’oscurità recondita, successiva a una felicità familiare (after-sun) che sopravvive nel ricordo di un’intima vicinanza tra padre e figlia, ovvero nell’immagine di un gesto ordinario (il doposole che i personaggi si passano a vicenda sul viso) che viene restituito (alla memoria, al cinema) nelle forme di una ritualità amorosa, di una tattilità che è «strumento che permette di azzerare tutte le distanze» (Cervini 2013, p. 104) laddove la «relazione può assumere la concretezza di un tocco» (ivi, p. 105).

Muovendo tra immanenza e trascendenza dell’immagine, Aftersun si fa quindi opera pienamente moderna (nozione innanzitutto teorica e transtorica) non solo, dunque, disarticolando la linearità narrativa ma, da un punto di vista specificamente stilistico, riproponendo le possibilità di quella dialettica forma/materiali che De Vincenti – certo, dopo Bazin – ha riconosciuto come sostanziale cifra della modernità cinematografica (De Vincenti 2013). Aftersun mostra, insomma, di rilanciare e riconfigurare nel contemporaneo un lavoro attorno alla cruciale questione della duplicità dell’immagine filmica (il suo costitutivo prodursi all’incrocio di un’istanza attestativa e di una formativa, del documentario e della finzione), attraverso gli strumenti di un’immaginazione intermediale che muove «da un confronto attivo tra i diversi formati tecnici dell’immagine […] e tra le sue diverse forme discorsive» (Montani 2022, p. 28). È in tal senso che le immagini video-amatoriali (sebbene non si tratti di un autentico found footage) si fanno qui icone documentarie che, da un lato, rimandano alla «capacità delle immagini in movimento di rendere testimonianza e […] riprodurre esteticamente l’opacità […] dell’evento» (Cati 2013, p. 81) e, dall’altro, vengono messe al lavoro al fine di rivelare le forze di un più profondo sentire che configura l’immagine dell’opera.

Sovraesposizione di un simile lavoro formale ed esibizione di una certa circolarità strutturale, l’ultima splendida inquadratura del film tiene dunque insieme in un unico gesto i materiali e le temporalità molteplici che ne hanno informato le articolazioni elaborative. Partendo dal fotogramma video di Sophie che in aeroporto – per l’ultima volta? – saluta il padre, una lunga panoramica sinistra-destra avanza prima verso il presente (il divano in cui la donna siede con la sua videocamera) e poi – ultimo decisivo movimento intensivo, accompagnato nella colonna sonora da una musica struggente e dal significativo vagito di un neonato – si addentra ancora una volta nelle virtualità di un luogo precluso alla memoria personale così come agli archivi tecnologici. Dopo aver filmato e salutato sua figlia, tra le tinte gelide di un aeroporto convertitosi in spazio qualsiasi, Calum spegne la videocamera e si incammina dandoci le spalle, sino a varcare le soglie di un’oscurità attraversata da bagliori stroboscopici. Il pensiero del padre fa ora ritorno al buio da cui aveva preso le mosse, al tormentato spazio-tempo affettivo di un fuoricampo indicibile, lì dove il cinema può finalmente ritrovare la vita.

Riferimenti bibliografici
A. Cati, Immagini della memoria. Teorie e pratiche del ricordo tra testimonianza, genealogia, documentari, Mimesis, Milano-Udine 2013.
A. Cervini, Lavoro, in Jean-Pierre e Luc Dardenne, a cura di A. Cervini, L. Venzi, Pellegrini, Cosenza 2013.
G. De Vincenti, Lo stile moderno. Alla radice del contemporaneo: cinema, video, rete, Bulzoni, Roma 2013.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Meltemi, Milano 2022.

Aftersun. Regia: Charlotte Wells; sceneggiatura: Charlotte Wells; fotografia: Gregory Oke; montaggio: Blair McClandon; interpreti: Paul Mescal, Frankie Corio, Celia Rowlson-Hall; produzione: AZ Celtic Films, BBC Film, PASTEL, Screen Scotland, Tango Entertainment (III), Unified Theory; distribuzione: MUBI; origine: Regno Unito, Stati Uniti d’America; durata: 101′; anno: 2022.

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