Nelle pieghe sinuose delle vecchie capitali
dove tutto, anche l’orrore, si capovolge in incantesimi,
io spio, obbedendo ai miei umori fatali
esseri singolari, decrepiti e affascinanti.
Charles Baudelaire, Les petites vieilles

abel-ferrara

Questi versi di Baudelaire, dedicati a Victor Hugo, appaiono a Giuseppe Montesano come “il preludio di una sinfonia” (G. Montesano, Il ribelle in guanti rosa. Charles Baudelaire, Mondadori 2007, p. 204) e tornano in mente per un film, Alive in France (2017), tutto immerso nella sinuosità calda e oppiacea di una musica “live” suonata nelle “cave” francesi da una band singolare, quella di Abel Ferrara cantante e incantatore, improvvisatore e musicista, formata da Joe Delia, compositore delle musiche per i film di Ferrara, dall’attore cantante Paul Hipp, dall’attrice Dounia Sichov, dalla bellissima nuova moglie Cristina Chiriac, dalla piccolissima Anna, loro figlia. Un gruppo familiare, un mucchio di artisti romantici, “esseri singolari e affascinanti”. Perché si pensa a Baudelaire?

Perché Ferrara, e il suo cinema, ci appaiono inscriversi in una tradizione del Moderno, quella che spinge, come vedeva Benjamin, il romanticismo verso un esito maudit e flâneur, ma soprattutto verso una visionarietà urbana, una fantasmaticità metropolitana, un susseguirsi immaginario di choc visivi che avrebbe cambiato definitivamente, con l’avvento del cinema, la percezione e la sensibilità dell’uomo moderno. Una poesia delle strade e degli stati alterati di coscienza, dove oppio e droghe, amori satanici, oscuri “occhi di serpente”, illuminazioni mistiche pervase di allucinazioni profane e di rigurgiti di un cattolicesimo permeato di angelismo luciferino (come quello di Huysmans) danno luogo a un onirismo e insieme a una iperrealtà in presa diretta (“documentale”) con l’avvenire, con l’accadere dell’arte nella vita.

Se Baudelaire dedicava a Constantin Guys il suo Peintre de la vie moderne, ora Ferrara con il suo nuovo film, presentato alla Quinzaine des Réalizateurs di Cannes, si autodedica una sinfonia tenebrosa, una ballata maledetta, una sonata diabolica e insieme una tenera e autobiografica acquaforte filmica, raccontando il suo viaggio musicale in Francia (dove a Tolosa si è tenuta una retrospettiva a lui dedicata) e al contempo ripercorre, con spezzoni proiettati su uno schermo alle spalle della band, il suo cinema, da The Bad Lieutenant, a The King of New York, a The Addiction, a The Funeral, a New Rose Hotel, a The Driller Killer (suo primo film che non a caso è la storia di un pittore assassino).

Non si tratta di un backstage ma di un “affondo” nella carne di un cinema, certo romantico e maledetto, ma anche sorprendentemente cosciente di  porsi nel solco di un procedimento che “ritrae” il nesso vita-arte, che autoriflette un atteggiamento tutto moderno: l’attivazione, nell’accadere della vita, di un processo a specchio. Specchio dell’atto di filmare qui ed ora non solo le circonvoluzioni di strutture noir o melò, non solo una visione del mondo pervasa da oscurità, cieca e veggente insieme, connessa al “senso di colpa” del guardare, dello spiare attraverso le fessure dell’anima, tramite la “macchina infernale” del cinema (attitudine che è anche di  grandi cineasti New Hollywood come Scorsese, Schrader, Coppola, Malick), ma soprattutto la vie d’artiste, le latebre maledette e visionarie di uno stato dell’uomo in rivolta, irriducibile a ogni ordine precostituito e affidato, dostoevskianamente, ai momenti epifanici e di grazia, di redenzione, che possono essere attinti solo dalla discesa a una saison à l’enfer.

Ferrara lo fa in questo film, e lo ha fatto in altri (compresi gli “apparenti” documentari autobiografici Mulberry Street e Chelsea on the Rocks) mettendo in circuito il farsi artistico del film stesso (come in Mary, come in Dangerous Game): la perdizione accanita e giubilante, la flagrante jouissance del Reale (in senso lacaniano) di corpi precipitati, tracimati e fatti rivivere attraverso il buco scuro, il vuoto beante dove un cineasta come lui affonda, ponendo l’occhio nel mirino della camera. Il suo corpaccione “alive”, come sopravvivente, reviviscente (ritornante dal viaggio buio di droghe e dipendenze, di amori folli e violenti), il suo “ultracorpo” (sacrificale e risorto, come quello che ha filmato in Pasolini) non ha, e non dà, tregua frapponendosi al di qua e al di là della cinepresa.

Non si stanca di sudare, cantare, bere, ridere, urlare: eppure ha momenti di estremo amore (proprio romantico) per la moglie con cui vive a Roma e per la bambina che ha generato. Ecco: il rigenerarsi e l’emettere in modo fertile il seme filmico, il darsi al pubblico dentro e fuori lo schermo, l’interlocuzione con l’occhio della macchina, insomma l’andare incessante e infaticabile per le strade delle città notturne e lungo le vie imprevedibili e imperscrutabili del cinema, lo rendono epitome dell’“artista della vita moderna”.

Riferimenti bibliografici
Ch. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, Abscondita, Milano 2004.
W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995.
G. Montesano, Il ribelle in guanti rosa. Charles Baudelaire, Mondadori, Milano 2007.

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