Tutto comincia con un’incomprensione, almeno qui da noi.

In America – dicono – ha ottenuto un successo strepitoso: Lucy Ball, modesta attrice di Hollywood, è diventata con questa rubrica una “stella”. E Desi Arnaz, suo marito anche nello stato civile, un “big” della CBS, la stazione che è seguita negli Stati Uniti da 40 milioni di persone. Non sappiamo se la partita di telefilm della serie Lucy ed io acquistati dalla nostra tv contenga qualcosa di meglio della farsetta “Le manette”. Ce lo auguriamo. Il racconto sceneggiato di sabato, infatti, ha deluso. Nella comicità, forzata e clownesca, e nei modi di recitazione ha ricordato certi scarti della produzione leggera hollywoodiana d’anteguerra. Un umorismo artificiale, che nessun comico italiano penserebbe ora di resuscitare, tanto è passato di moda.

Sono queste le parole che, in uno dei primi articoli dedicati al programma, ospitato dal Corriere d’informazione, hanno accolto la messa in onda italiana, il 6 febbraio 1960, di una prima puntata di I Love Lucy, la sitcom che sugli schermi americani aveva cominciato la sua corsa ormai quasi dieci anni prima, nel 1951 (e si era conclusa nel 1957 per far spazio a seguiti e spin-off). Sull’allora unico canale tv, seguirà solo una manciata di altri episodi, lost in translation vista l’assenza di chiavi di letture per comprendere un genere ignoto, deludente se ricondotto alle formule consuete e (troppo) tradizionali, e data l’impressione di una comicità fiacca, debole, con le risate di sottofondo dissonanti e applicate a un doppiaggio incerto. Negli Stati Uniti, invece, è tutto diverso.

Oltreoceano la situation comedy è «quell’asse attorno a cui ruota il broadcasting intero», nelle parole del critico Gilbert Seldes; è l’appuntamento che milioni di abitanti di un Paese enorme si danno davanti al piccolo schermo; è una tra le forme di una serialità televisiva ai primi passi ma con esplicite radici nel teatro e nella radio, e forte vicinanza al varietà, alla stand-up comedy, all’intrattenimento leggero. E I Love Lucy, Lucy ed io in italiano, è il capolavoro capace di fissare le regole di un formato ancora tutto da modellare, è il grande successo capace di incidere i suoi protagonisti e le loro battute in profondità nella memoria collettiva, è il titolo replicato senza mai fine, su ogni canale e piattaforma. Non stupisce troppo allora che, a settant’anni di distanza, un film americano rilegga quella sitcom, le sue star, il processo che la porta sullo schermo, il contesto culturale, socio-politico e mediale. Né che sia Aaron Sorkin, qui sceneggiatore e regista, a poggiarvi su sguardo e penna, confezionando un ennesimo ambizioso progetto-totale: A proposito dei Ricardo (Being the Ricardos, 2021), su Prime Video.

Il film si apre e si chiude come se fosse un documentario, con i comprimari invecchiati che tornano con la memoria a un momento preciso del loro lavoro su I Love Lucy, a una manciata di giorni densi, carichi di tensioni, determinanti per quanto successo in seguito. C’è l’idea del making of, di quelle storie orali a più voci con cui la popular culture statunitense rilegge di continuo la sua storia e la rende monumento; e c’è il reality, con i confessionali che raccolgono pettegolezzi e danno voce ai non-detti, e forse persino un legame con le sitcom e comedy contemporanee (The Office, Modern Family o Parks and Recreation) che sugli a-parte con i personaggi costruiscono narrazioni e comicità.

La cornice è però solo appoggiata, un pretesto per dare spazio al flashback, alla settimana in cui finiscono per intrecciarsi tra loro tante storie tutte eccezionali: le dicerie e accuse di comunismo per Lucille Ball, per il riemergere di vecchie storie che trovano spazio sulla stampa, in un’America (e Hollywood) scossa dalla commissione per le attività antiamericane del senatore McCarthy; la sua gravidanza, difficile da nascondere agli spettatori, che porta i network tv in un territorio ancora inesplorato, incerti tra un’ottusa pudicizia e un ovvio (col senno di poi) inserimento nel racconto quotidiano e familiare della sitcom; e poi le difficoltà coniugali tra Lucille e il marito e collega Desi Arnaz, il tradimento smentito e via via più concreto che fa da basso continuo, da catastrofe incombente, da complicazione accantonata per altre urgenze ma pronta a ritornare. I tre fili si uniscono in un climax: “Se registri la puntata venerdì, vuol dire che hai ancora un programma”.

In questo quadro, però, a Sorkin pare interessare soprattutto quella che, al di là delle emergenze e degli imprevisti, è comunque “una normale settimana di produzione”, usando le parole di Jess Oppenheimer (Tony Hale), showrunner, produttore, head writer, nella realtà e un po’ meno nella finzione l’uomo dietro al successo di I Love Lucy. Dal lunedì al venerdì, il tempo è scandito dagli impegni del set: la prima lettura dei copioni, le prove parziali per posizionare attori e telecamere, la generale, la ripresa dello spettacolo davanti alla studio audience nella versione che poi andrà in onda. È il ritmo di spettatrici e spettatori, che a milioni si raccolgono ogni lunedì sera davanti agli schermi per una nuova puntata, e quello dell’industria che la confeziona, in un ciclo continuo e ininterrotto (salvo catastrofi), seguendo le regole, affastellando impegni e rispondendo alle necessità.

Vediamo il formicaio del set, gli attori, le figure creative, tecniche e gestionali, la writers’ room e il regista ospite, la negoziazione costante above e below the line. Sentiamo il fiato sul collo della rete, dei funzionari e del potere senza volto. Capiamo la pervasività degli sponsor, decisori ultimi in una tv da subito commerciale. Certo, almeno nelle intenzioni il film vorrebbe essere qualcosa di più, trasfigurando la scena della tv in una storia universale, rileggendo gli anni cinquanta con sensibilità contemporanea – nello scontro politico che si serve dei media, nella conquista di ribalta e potere da parte del latino Desi (con l’accento marcato di Javier Bardem) e della donna Lucille (con il mascherone di Nicole Kidman, «post-volto» come lo ha definito con efficacia Roy Menarini, che le è appena valso il Golden Globe), negli equilibri di genere in una power couple (adombrati fin dal titolo, Being the Ricardos, dove la vera star scompare nel cognome del marito), nel simbolico passaggio di consegne tra due generazioni di femminismi in writers’ room. Complice la regia non particolarmente ispirata, forse a richiamare quel “grado zero del linguaggio audiovisivo” spesso attribuito alla sitcom, l’impressione è però che l’intreccio e le sue possibili letture siano più che altro un pretesto, una scusa. E che più che per una cancel culture prima del tempo l’attenzione sia tutta per la possibile cancellazione di una serie tv.

A proposito dei Ricardo è anche e soprattutto il tentativo di mettere in scena, di dare una visualizzazione, al ben poco spettacolare processo della scrittura seriale. Alla creatività ancora più efficace perché costretta entro un formato preciso, alla «catena di montaggio che si eleva ad arte» (per citare la felice espressione di David Marc, nata per la sitcom ma applicabile a molto mestiere televisivo). Alla ricerca della risata, al lavoro di cesello e perfezionamento costante perché ogni battuta appaia leggera e naturale, e per questo funzioni. Al genio e alla regolatezza. Ai post-it, alle letture, alle note, alle prove, ai processi sempre attivi e paralleli. Alle illuminazioni improvvise, ai tentativi e alle rinunce. Con il colore delle prove e il bianco e nero della scena immaginata e poi trasmessa, con le memorie dei tanti successi precedenti (lo sciroppo vitameatavegamin) e la previsione di quelli futuri (l’uva pestata nel viaggio in Italia), con la risata di chi è in studio a dar reazione immediata o a costruire per contrasto la tensione più forte. Sorkin cesella dialoghi affilati che mettono in scena il cesello di (altri) dialoghi affilati, senza dimenticare il “suo” walk&talk. E così, pur nella sua imperfezione, Being the Ricardos aggiunge un tassello all’ormai lunga analisi dei media e della società mediata da parte di questo autore.

Può sembrare un passo indietro, guardare a una storia in bianco e nero dopo i notiziari sportivi di Sports Night (1998-2000) e la presidenza statunitense di West Wing (1999-2006), dopo il varietà comico del sabato sera di Studio 60 on the Sunset Strip (2006-2007) e le reti cable all news di The Newsroom (2014-2016), dopo gli sguardi tra garage e camerate universitarie alle radici dei media digitali di The Social Network (2010) e di Steve Jobs (2017). Ma il discorso è più complesso. Tra le premesse di I Love Lucy compaiono il passaggio dalla radio alla tv e il fallimento di un certo studio system, sullo sfondo della sitcom si staglia il conflitto tra grande e piccolo schermo, ma la celebrazione della network television e in generale dei legacy media – significativamente, ironicamente, distribuita da una piattaforma digitale – non è solo nostalgia. È il tentativo di sottolineare quelle linee di continuità, quei tratti di permanenza che rischiano di essere nascosti dalla rivoluzione. Nel nuovo, ciò che resta uguale.

Riferimenti bibliografici
S. Austerlitz, Sitcom. A History in 24 Episodes from I Love Lucy to Community, Chicago Review, Chicago 2014.
L. Barra, La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, Carocci, Roma 2020.
E. Edwards, I Love Lucy. Celebrating 50 Years of Love and Laughter, Running, Philadelphia 2010.
A. Grasso, C. Penati, La nuova fabbrica dei sogni. Miti e riti delle serie tv americane, il Saggiatore, Milano 2016.
D. Marc, Comic Visions. Television Comedy & American Culture, Blackwell, Malden 1997.

A proposito dei Ricardo. Regia: Aaron Sorkin; sceneggiatura: Aaron Sorkin; produttore: Todd Black, Jason Blumenthal, Steve Tisch; produzione: Amazon Studios, Escape Artists; distribuzione: Prime Video; fotografia: Jeff Cronenweth; montaggio: Alan Baumgarten; musiche: Daniel Pemberton; origine: Stati Uniti d’America; durata: 131′; anno: 2021.

Tags     Aaron Sorkin, serialità
Share