«È difficile sapere una cosa e fare come se non la si sapesse» scrive Wittgenstein in una nota del 1949 (raccolta ora in Pensieri diversi). Una cosa che sanno i poeti (e i filosofi poeti, come appunto Wittgenstein) è che la lingua esiste, che la lingua parla, e che quindi pensa. È la lingua che pensa e parla, non i parlanti che pensano e parlano attraverso la lingua. È così assurdo quanto dice Wittgenstein – che sia la lingua a parlare e non noi che la parliamo – che questo pensiero è propriamente impensabile: i manuali di comunicazione devono inventarsi l’esistenza di quella entità metafisica che è il “mittente” per allontanare questo pensiero altrimenti intollerabile.

Non è la lingua che parla, è il parlante che parla, ripetiamo come uno scongiuro. Ma che vuol dire che è la lingua, che parla? In un’altra osservazione famosa, contenuta nelle Ricerche filosofiche, Wittgenstein paragona il linguaggio ad una vecchia città, «un intrico di vicoli e piazze, di case vecchie e nuove, e di case con ampliamenti di epoche diverse; il tutto circondato da un insieme di zone periferiche con strade dritte e regolari e case uniformi» (§ 18). La città esiste, è molto più antica dei suoi cittadini, la città è un insieme di luoghi e di strade, di piazze e case, di vicoli e viali. La città offre una grande scelta di posti da visitare, dove desiderare di andare. Ad esempio, prima si vuole andare a vedere il Duomo di Santo Stefano, e poi il Palazzo Reale. Siamo liberi di andare dove vogliamo. Ma i luoghi dove possiamo andare non li abbiamo scelti noi, è la città che li offre.

Parlare una lingua significa essere liberi di dire tutto quello che la lingua ha “deciso” che possa essere detto. Parlare una lingua significa scegliere fra opzioni che nessuno ha scelto. Ecco perché «la lingua è il castigo» (p. 251), come scrive la poetessa, e filosofa, Ingeborg Bachmann, nel suo libro A occhi aperti (2025). Perché dalla lingua, come dalla città, non si esce, perché viviamo in città anche quando crediamo di uscire dalla città, perché quelli che chiamiamo i “nostri” pensieri sono comunque pensieri cittadini, sono già stati pensati dalla città. Da sempre. La lingua parla pensa e desidera, appunto.

La poesia è l’esperienza interna della lingua, così come un tassista esperto può avere una conoscenza approfondita di una città. Un bravo tassista, almeno un tassista prima dei navigatori satellitari, sa come andare in qualsiasi luogo della città partendo da qualsiasi altro luogo. La poesia, analogamente, è l’esperienza della lingua non in quanto mezzo di comunicazione, ma proprio in quanto e semplicemente lingua. L’esperienza non di quello che la lingua dice, ma di quello che la lingua è, del fatto della lingua (il factum loquendi, lo chiama Agamben). La poesia è propriamente l’esperienza del linguaggio.

Ma una volta che il linguaggio lo hai visto, puoi anche cominciare a chiederti se è possibile un pensiero diverso dal pensiero linguistico, se si può pensare fuori e oltre il linguaggio. Perché solo quando ci accorgiamo di avere sempre vissuto in una città, solo allora può venirci in mente di desiderare di vivere da qualche altra parte. Ma come pensare un pensiero del genere, se gli unici pensieri che sappiamo pensare sono pensieri impastati di linguaggio (se anche quando siamo nella cosiddetta “natura” continuiamo a viverla da cittadini)? Non è vero che già da sempre «abbiamo perso la partita con il nostro linguaggio» (ivi, p. 46)? Si tratta allora di rimanere in città, continuando ad usare l’analogia di Wittgenstein, ma come se ne fossimo già fuori, rimanere fra le sue strade, ma come le può vedere e vivere una rondine che voli fra di esse senza essere obbligato a seguirne i tracciati. Essere nella città, ma in qualche modo viverla come se potessimo starne fuori.

La poesia è allora quella esperienza del linguaggio in cui si scorgono, senza però mai abbandonare il linguaggio, i confini interni dello stesso linguaggio

perché chi accetta le regole ed entra nel gioco, non scaglia la palla oltre i limiti del campo. Il campo di gioco è il linguaggio, e i suoi confini sono i confini del mondo contemplato senza porre domande, svelato e pensato con esattezza, i confini di quel mondo conosciuto nel dolore e lodato e magnificato nella felicità (ivi, p. 66). 

La formula è perspicua, la poesia “non scaglia la palla oltre i limiti del campo”, perché non possiamo pensare pensieri non linguistici, tuttavia se riusciamo a rimanere nei “suoi confini”, ebbene siccome rimaniamo nel “mondo contemplato senza porre domande” (la poesia non dice nulla, propriamente) ebbene allora possiamo vedere il linguaggio, e quindi immaginare di farne a meno:

noi, che trattiamo con la lingua, sappiamo cosa significhino stupore e silenzio – le nostre, per così dire, condizioni più pure! –, e dalla terra di nessuno abbiamo fatto ritorno insieme alla lingua e la porteremo avanti, sinché avremo vita davanti a noi (ivi,  p. 105). 

Abitare la “terra di nessuno”, quella terra che si stende proprio davanti al linguaggio, ma che già più non è linguaggio, là dove possiamo immaginare la possibilità di un pensiero che si possa sporgere oltre il linguaggio, là dove non ci sono che “stupore e silenzio”. È nella “terra di nessuno” che il nostro sguardo improvvisamente diventa nitido, ossia diventa capace di vedere non solo quello che il linguaggio (come la città) ci offre la possibilità di dire (e di visitare), ma di “vedere” quello che non sappiamo dire, quello per cui non disponiamo di parole e discorsi: è questo, propriamente, il “mondo contemplato senza porre domande”. Perché la poesia, come esperienza della “terra di nessuno” oltre il linguaggio, apre letteralmente il “nostro” sguardo (anche la visione è intrappolata nel linguaggio, non vede che quello che il linguaggio gli si suggerisce di vedere) alla visione del mondo come dev’essere stato prima del linguaggio e del pensiero:

credo che questo le poesie riescano a farlo, e credo che chi scrive poesie deponga formule in una memoria, parole meravigliose e antiche, per indicare una pietra o una foglia, congiunte l’una all’altra oppure spezzate da nuove parole, nuovi segni per indicare la realtà; e sono certa che chi plasma queste formule ne sia anche rapito insieme al proprio respiro, che egli fornisce come prova non richiesta della loro veridicità (ivi, p. 65). 

Non è tanto la poesia che dice il mondo, è piuttosto il mondo – “una pietra o una foglia” – che nella poesia viene al mondo, si mostra in tutto il suo splendore, diventa cioè finalmente visibile: «Perché noi tutti vogliamo diventare vedenti» (ivi, p. 99). È questa la posta in gioco della poesia, “diventare vedenti”, ossia vedere il mondo al di qua e al di là delle parole e dei pensieri con i quali lo abbiamo sempre ricoperto e nascosto:

Quando raggiungiamo quello stato lucido e straziante in cui il dolore diventa fecondo – si tratta del dolore di chi si trova all’improvviso nella “terra di nessuno” del linguaggio – in modo molto semplice e giusto diciamo: mi si sono aperti gli occhi. E non diciamo così perché abbiamo percepito un oggetto o un avvenimento dall’esterno, ma perché comprendiamo quel che non riusciamo a vedere (ibidem).

Quel che “non riusciamo a vedere” è esattamente il mondo quando si presenta nella “terra di nessuno”, là dove le parole non ci vengono automaticamente alla bocca, dove i pensieri mille volti pensati non ci soccorrono, ecco allora il mondo che si mostra, «perché la vita non risiede in ciò che è possibile comunicare» (ivi, p. 162). Siamo sempre nella stessa condizione, nella lingua fuori della lingua, nella città (siamo tutti cittadini) e nel mondo:

In noi si desta il desiderio di superare i limiti che ci sono imposti. Non per smentirmi, ma per chiarire ulteriormente, aggiungerei: certo, so bene che dobbiamo restare all’interno di un sistema di regole, che non esiste via di fuga dalla società e che siamo costretti a metterci vicendevolmente alla prova. All’interno di questi limiti però il nostro sguardo è rivolto verso l’assoluto, l’impossibile, l’irraggiungibile, che riguardi l’amore, la libertà o qualsiasi altra entità pura. Contrapponendo l’impossibile al possibile ampliamo le nostre possibilità. È importante, io penso, creare questo stato di tensione in cui crescere; orientarsi verso un obiettivo che, naturalmente, appena ci avviciniamo torna ad allontanarsi (ivi, p. 100).

Quello della poesia è “un obiettivo” – aprire gli occhi – che “naturalmente, appena ci avviciniamo torna ad allontanarsi”, perché è insopportabile vedere il mondo oltre le parole e i pensieri della lingua, anche se non desideriamo nient’altro, perché, come ci ricordava Wittgenstein, “è difficile sapere una cosa e fare come se non la si sapesse”: il mondo è apparso, improvviso e terribile, non puoi dimenticare di averlo intravisto, non puoi smettere di desiderare di rivederlo.

“Come fare a riconquistare Dio?” (ivi, p. 23) si chiede allora Ingeborg Bachmann, come fare appunto a sopportare di vedere “una pietra o una foglia” per quel che sono, come entità allo stesso tempo ovvie e affatto sconosciute? Parlando di Robert Musil, a proposito del personaggio di Ulrich de L’uomo senza qualità, scrive che sognava «una “mistica” chiara come il giorno, quale possibilità di deviazione passeggera dall’ordine consueto dell’esperienza» (ivi, p. 51), una definizione molto precisa del suo stesso lavoro poetico, un esercizio di “deviazione passeggera dall’ordine consueto dell’esperienza”. Come Bachmann scrive nella poesia Quel che è vero (dalla raccolta Invocazione all’Orsa maggiore): “Schiavo del mondo / tu sei gravato di catene, / ma qual ch’è vero nel muro apre le crepe. / Vegli e nel buio vai scrutando intorno, / a ignota via d’uscita sei volto”.

Riferimenti bibliografici
I. Bachmann, Invocazione all’Orsa Maggiore, a cura di Michele Reitani, SE, Milano 2002.
L. Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di Michele Ranchetti, Adelphi, Milano 1967.
Id., Ricerche filosofiche, a cura di Luigi Perissinotto, Feltrinelli, Milano 2024. 

Ingeborg Bachmann, A occhi aperti, Adelphi, Milano 2025.

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