1917 è un difficilissimo (video)gioco, in cui, come ammonisce il colonnello Mackenzie, vince chi sopravvive. A raccogliere la sfida sono due giovani soldati britannici, Schofield e Blake: devono attraversare, con nessuna o pochissime chance di riuscire, il territorio nemico per consegnare al colonnello Mackenzie, entro poche ore, l’ordine di interrompere un attacco, concepito presupponendo una ritirata dei tedeschi, e così salvare la vita di migliaia di commilitoni (tra i quali si trova anche il fratello di Blake).
A differenza di quanto l’esperienza sul campo aveva lasciato pensare, una fotografia aerea rivela al generale Erinmore che quella dei tedeschi – tutti cattivissimi come soltanto in un videogioco sarebbe tollerabile – è solo una simulazione e che l’esercito inglese sta per cadere in una trappola. La vicenda che dà inizio al racconto dunque conferma che la Grande Guerra ritrae, anche nel lavoro di Sam Mendes, l’evento storico in grado d’interrogare l’attendibilità stessa dell’esperienza, l’affidabilità dei sensi e quindi la possibilità del racconto.
Il film è un circolo che si apre e si chiude come un idillio campestre. All’inizio Blake e Schofield dormono esausti in un prato; al termine di 1917, Schoefield chiude gli occhi dopo aver compiuto la sua missione. D’altro canto, non ci sarebbe nulla di strano a immaginare (lo pensavano già i surrealisti di Breton) che la vicenda della Grande Guerra sia solo un (brutto) sogno, dal momento che la sua terrificante violenza è, in fondo, semplicemente inconcepibile. Ma a ben vedere, sogno o no, nulla cambierebbe, secondo Mendes, perché la nostra percezione del tempo, dello spazio, da questa allucinazione infernale, sarebbe comunque, una volta e per sempre, trasfigurata. 1917 è la presa in carico di questa trasfigurazione in grado di stravolgere complessivamente cento anni di rappresentazione della Grande Guerra, pur utilizzando – ma come fossero inventati per la prima volta – tutti i suoi topoi consolidati: topi, cadaveri, fango, trincee, cavalli morti, filo spinato.
Per questo motivo, viene da pensare, 1917 non poteva arrivare che dopo la fine del centenario della Grande Guerra (1914-1918), come punto di raccordo di due tensioni espressive, solitamente contrapposte, che emergono addirittura quando la guerra non è ancora terminata e che qui invece Mendes prova a tenere insieme. Da una parte, c’è l’idea classica della rappresentazione che s’impegna, con una forma di realismo naturalista, a riportare i fatti per come sarebbero andati effettivamente. Sul piano letterario questa opzione ha due esempi famosi: Il fuoco (1916) di Barbusse e Niente di nuovo sul fronte Occidentale (1929) di Remarque. Dall’altra, c’è invece chi ammonisce che qualsiasi tentativo di riproduzione estetica dell’orrore ne depotenzierebbe la portata. Citiamo in questo caso ancora un famoso esempio letterario: La montagna magica (1924) di Mann.
Al cinema – allora ancora arte giovanissima – lo scoppio della Grande Guerra pone il problema della legittimità (per certi versi persino della possibilità concreta) della propria intenzione testimoniale. Per ragioni tecniche, prima ancora che etiche, la guerra di trincea diventa per il cinema ciò che letteralmente non si può “rappresentare”. Non c’è niente da vedere sul campo di battaglia – lontano per ragioni di sicurezza dall’occhio della macchina da presa – se non fumo ed esplosioni. In fondo tutto il cinema di guerra, da Orizzonti di gloria (1957) di Kubrick a Per il re e per la patria (1964) di Losey, per citare soltanto due capolavori, incentrati non a caso sul problema della testimonianza, sono anche una risposta a questa deficienza documentale. Ma c’è ancora molto di più: lo capisce forse meglio di altri Walter Benjamin (2018) quando intravede nella Prima guerra mondiale il luogo della fine della narrazione perché nella carneficina dominata dall’automatismo delle macchine ogni esperienza singolare evapora (vedi il suo breve e straordinario saggio del 1933, Esperienza e povertà). Non solo per il cinema, ma anche per la letteratura e la pittura, la Grande Guerra determina il paradigma di ciò che definiamo “irrappresentabile”.
1917 assume, in una forma solo apparentemente ingenua, tutte le sfide che all’idea di rappresentazione sono poste dalla Prima guerra mondiale, a partire dalla scelta di girare l’intero film in un solo piano-sequenza sui generis. La macchina da presa si accosta ai due protagonisti nella prima inquadratura del film, da quel momento li segue attraverso le terribili traversie che devono affrontare senza perderli mai di vista. A questo primo livello, l’uso del piano-sequenza è lo strumento con il quale Mendes realizza ciò che il cinema dello scorso secolo non era riuscito a ottenere: documentare la guerra nel suo farsi. Per raggiungere questo obiettivo bisogna dunque spingere il cinema oltre i propri limiti, prima e dopo la sua gloriosa storia, rinunciando persino al montaggio, lo strumento grazie al quale il cinema è ciò che è. Meglio: si tratta di adoperare il montaggio senza montaggio.
In un momento nevralgico del film, Schofield, nel corso di uno scontro a fuoco con un nemico, perde i sensi svenuto. Lo schermo è nero per qualche secondo (lunghissimi nell’economia visiva del film). È l’unico momento in cui il piano-sequenza si ferma, arrestando la continuità temporale del racconto, che riprende esattamente nella posizione in cui si era interrotto, proseguendo di nuovo in piano-sequenza. Quando il soldato inglese si risveglia, però, siamo in un altro tempo nel tempo; un tempo in cui il tempo si è fermato (l’orologio del soldato, fino a quel momento punto di riferimento indispensabile per compiere la missione, si è rotto) e inizia il lampo prolungato dell’impossibile: Schofield diventa pressoché immortale.
Superare i confini del cinema significa risalire alle sue origini e immaginarne gli sviluppi futuri, quelli che qui cominciano a emergere. Intravediamo che a valle di quest’operazione c’è la pittura, che per prima rappresenta la guerra trasferendola in immagini. Nella stratificata tessitura figurativa di Mendes sono i quadri di John e Paul Nash, soprattutto, con la loro vocazione realistica, ad alimentare le immagini di 1917. Sin dall’iniziale, affannata corsa verso la prima linea dei due protagonisti, o nel loro movimento in una livida No man’s Land, il film dichiara la sua imponente ambizione: prendere in carico la tradizione della rappresentazione classica dell’orrore per superarla, non mettendo però 1917 su un altro campo, quello dell’irrappresentabile, ma scavando dall’interno la logica della rappresentazione, sino a farla esplodere per eccesso di iper-realismo, in una spudorata e, in fondo, non celata finzione. L’eccesso di rappresentazione in Mendes dunque evoca il tramonto di ogni rappresentazione (cinematografica) possibile.
A monte, oltre il cinema novecentesco, c’è l’immagine digitale che strizza l’occhio all’estetica di molti videogiochi contemporanei. È in questo caso che Mendes può azzardare ciò che il cinema raramente ha osato pensare: impiegare il piano-sequenza non per far coincidere il tempo del racconto con quello della storia, ma per compiere ciò che è da sempre spettato al montaggio. Il piano-sequenza di 1917 infatti inaugura una nuova forma del tempo: lo accorcia, eliminando come sempre tutti i momenti morti, senza però che ciò appaia evidente, immersi come siamo in un flusso senza tregua di immagini. È senza dubbio l’operazione più radicale del film: lavorare sulle strutture filmiche per rinegoziare il rapporto fra verosimiglianza e realtà. È uno strano realismo, infatti, quello di Mendes, che sopravanza programmaticamente la realtà, soprattutto perché la realtà a cui si riferisce è – lo abbiamo detto – in sé stessa irrappresentabile. Attraverso questa inclinazione poetica, 1917 maneggia la questione cruciale della testimonianza separandola completamente dai fatti; la questione diventa meramente soggettiva, tralasciando ogni oggettività storica.
Il film è dedicato alla memoria del nonno di Mendes, al cui racconto (così si legge nei titoli di coda) si deve l’idea di partenza. Se c’è ancora una testimonianza possibile essa appartiene solo a una ricostruzione tanto scrupolosa e apparentemente fedele a innumerevoli minuziosi particolari da non richiedere più di essere verificata (tanto si presenta, proprio alla luce di un eccesso di accuratezza, auto-sconfessata), perché ciò che abbiamo visto è valido di per sé. Se siamo d’accordo che ogni testimonianza è per sua stessa natura lacunosa, deficiente, refrattaria alla storia, tanto più essa ci impegna a immaginare la verità, persino a inventarla, rivendicando l’iper-realismo come forma di superamento di ogni realismo fin qui sperimentato.
C’è un altro elemento che il film elabora radicalmente: la Grande Guerra produce una nuova forma di umanità che sotterra quella precedente. Nel 1934, il leggendario eroe di guerra tedesco, Ernst Jünger, in un saggio intitolato Sul dolore, notava che di fronte al primo conflitto della tecnica, per valutare la rivoluzione antropologica da esso scatenata, bisogna occuparsi del ruolo che il dolore gioca nella formazione di questa nuova, enigmatica umanità, in grado di resistere, sia sul piano individuale sia collettivo, alla devastazione totale, avendo rinunciato a ogni forma di sensibilità.
L’uomo della Grande Guerra infatti vive costantemente ai limiti dell’umano, sulla soglia dove l’umano non può più riconoscersi come tale, facendo del pericolo estremo la propria condizione normale. Più o meno con le stesse argomentazioni, 1917 prende sul serio l’idea che la Grande Guerra segni una frattura implacabile nella storia della modernità non soltanto sul piano geo-politico e storico, ma antropologico, scagliando l’umanità in un altro universo psicologico, culturale, laddove coincidono allo stesso tempo progresso industriale – il primo conflitto mondiale è a tutti gli effetti la prima guerra della tecnica – e una dimensione preistorica, barbarica, come alcune immagini del film chiaramente evocano con scenari allo stesso tempo medievali (paesaggi alla Signore degli anelli) e post-moderni (alla Blade Runner).
Sul piano simbolico le intenzioni di Mendes sono chiarissime: nella prima parte della loro marcia nell’orrore i due protagonisti giocano il ruolo classico della gioventù di inizio Novecento. In un dialogo con il suo amico, ad esempio, Schoefield confessa di aver scambiato una medaglia di guerra per una bottiglia di vino solo perché, come qualsiasi esistenzialista sregolato, aveva voglia di bere. Persistono dunque ancora debolezze che rendono umani i due soldati, sentimenti come l’amicizia, o addirittura il riconoscimento del valore della vita umana, compresa quella del nemico; ma saranno, d’altronde, proprio queste virtù del mondo di ieri, che attardano in particolare Blake in una forma di umanità destinata a svanire (la fratellanza e la pietà), a separarli irrimediabilmente.
Dopo che Schoefield viene seppellito dall’esplosione di una trincea e sottratto ancora vivo dalle macerie dall’amico, però, tutto cambia. Da quel momento in avanti diventa un uomo diverso che, non a caso, deve nuovamente imparare a vedere, rimuovendo dagli occhi tutta la polvere dell’esplosione. Schoefield allora rinasce e come un bambino infatti beve il latte trovato in una fattoria abbandonata (il simbolismo di cui è infarcito il film, in fondo, a ben vedere, è la traccia di un carattere nonostante tutto presente: la sua carica storico-tradizionale). È uno dei riti di passaggio – come le prove contro il fuoco e l’acqua – che lo consegnano a una nuova condizione, non più semplicemente umana. Da sopravvissuto, sia sul piano emotivo sia su quello psicologico (forse anzi Schoefield non presenta più una psicologia), il ragazzo assapora un’altra dimensione, in cui è chiamato a una serie di prove, in primo luogo la solitudine, che ne mettono alla prova la resistenza.
A ben vedere, però, il suo eroismo, che pure in certi momenti lo fa apparire un paradossale super-eroe (non ha più bisogno di mangiare, corre come nessuno e i proiettili lo scansano), non esprime niente di eroico: Schoefield altro non è che un sopravvissuto. Penetra in una dimensione archeologica, post-storica, in cui nessuna forma di eroismo è veramente concessa perché gli ordini del potere, come la guerra, sono privi di senso. È ancora il generale Mackenzie a fornire una sentenza decisiva: “Oggi bloccano il nostro attacco, ma fra qualche giorno ce ne daranno uno opposto”.
La grandezza e la problematicità dell’operazione di Mendes, la torsione estetica che imprime ai film di guerra, è assumere il punto di vista di questa inedita umanità, in grado di sopportare l’insopportabile, di fare letteralmente l’impossibile, portando all’estremo lo sguardo impersonale del cinema. Non c’è più spazio per nessuna umanità e persino l’occhio della macchina da presa sembra non appartenere a nessuno: non ai protagonisti di questa storia, non al suo narratore. A chi allora?
Riferimenti bibliografici
H. Barbusse, Il fuoco, Elliot, Roma 2015.
W. Benjamin, Esperienza e povertà, Castelvecchi, Roma 2018.
E. Jünger, Sul dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997.
E.M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte Occidentale, Mondadori, Milano 2001.
T. Mann, La montagna magica, Mondadori, Milano 2010.
1917. Regia di Sam Mendes; sceneggiatura: Sam Mendes, Krysty Wilson-Cairns; fotografia: Roger Deakins; montaggio: Lee Smith; interpreti: Benedict Cumberbatch, Dean-Charles Chapman,Colin Firth, George MacKay; musiche: Thomas Newman; produzione: Amblin Partners, DreamWorks Pictures, Neal Street Productions, New Republic Pictures; distribuzione: 01 Distribution; origine: Stati Uniti d’America, Regno Unito; durata: 119′.