Negli anni successivi agli attentati del 9/11 e con l’avvento della Guerra al terrore, il panorama seriale statunitense, al pari, se non in misura maggiore, di quello cinematografico, ha visto l’aumento di narrazioni complesse (Mittell 2017) che hanno proposto configurazioni narrative utili per ripensare alcune delle immagini traumatiche trasmesse in quella mattina di settembre, per comprenderne gli effetti sulla cultura visuale e per tornare a immaginare, attraverso gli strumenti del racconto, i modi e le forme dello stare assieme.
Caduta libera
Quando a marzo 2012 la AMC invade il paesaggio visivo di New York con il poster della quinta stagione di Mad Men (2007-2015), il riferimento iconografico alla foto scattata da Richard Drewd unidici anni prima si rende ancora più esplicito – stando alle indignazioni e alle critiche – rispetto al finale della sequenza di apertura realizzata dalla casa di produzione Imaginary Forces. Se in quest’ultima predominano gli omaggi alle opere realizzate da Saul Bass per i film di Hitchcock, nel manifesto pubblicitario della serie tv il tratto grafico, già scarno, si riduce al minimo essenziale: lo sfondo di Madison Avenue tappezzato da manifesti pubblicitari affonda nel bianco, per lasciare spazio alla silhouette nera dell’uomo in giacca e cravatta che precipita nel vuoto.
Seppur ambientato cinquant’anni prima rispetto al Falling Men immortalato dal fotografo dell’Associated Press nel giorno che ha inaugurato il «tempo delle catastrofi» Mad Men si appropria dell’efficacia disturbante di un’immagine antieroica – una sorta di controcampo rispetto ai patriottici pompieri immortalati nello scatto di Thomas Franklin Ground Zero Spirit che ritrae la caduta libera di una vittima solitaria – colta in un gesto folle, provocato dalla paura, e al contempo determinata a morire.
Nella serie ideata da Matthew Weiner l’uomo che cade è Dick Whitman che, dopo essersi impadronito dell’identità del defunto Don Draper, ricomincia la sua esistenza di personaggio all’interno dell’universo pubblicitario e della storia del capitalismo statunitense. È dunque attraverso un potente anacronismo tra l’ambientazione della storia raccontata e il tempo della sua fruizione, che l’impatto provocato dalla distruzione delle Twin Towers si riverbera su Mad Men e i suoi spettatori.
Il racconto seriale del terrore
Se è possibile tracciare una geopolitica del tempo presente, dominato dalla paura, proprio a partire dalle serie tv (Moïsi 2017), la produzione seriale statunitense compresa tra il 2001 e il 2019 ha affrontato un ampio spettro di questioni che va dalla ricostruzione degli antefatti relativi all’attacco del 2001 (The Looming Tower), alla crisi delle forme democratiche di esercizio del potere e al bisogno crescente di sicurezza (House of Cards e Designated Survivor), fino alle strategie belliche e rappresentative connesse alle guerre contro il terrorismo (24 e Homeland).
Le serie tv sui terrorismi hanno problematizzato la retorica securitaria, offrendo degli spunti di riflessioni sull’efficacia simbolica delle narrazioni sull’alterità. L’attualità di questi racconti, la loro capacità di offrire delle cornici narrative e interpretative a quanto riportato dalle cronache, ha intensificato i rimandi tra questi racconti e l’esperienza vissuta dagli spettatori.
Il posticipo dell’uscita di 24 (2001-2010), prevista per fine ottobre, è un primo indicatore delle ricadute e delle influenze reciproche tra eventi e fiction seriale a cui si è accennato. A ciò si aggiunge l’innovativo trattamento che, durante gli episodi, subisce la struttura temporale adoperata per raccontare la storia. Infatti, la serie tv basa la sua tenuta narrativa su un effetto di tempo reale: ogni stagione racconta una sequenza di eventi che si svolgono nelle ventiquattro ore di una giornata, mentre la singola puntata copre un’ora della vita dell’agente Jack Bauer, impegnato a sventare attacchi terroristici, e la sua durata è pari a sessanta minuti. L’aderenza tra i flussi temporali è inoltre amplificata dalla presenza di un timecode sovrimpresso alle immagini, che scandisce il trascorre del tempo del racconto e quello della durata effettiva dell’episodio, e dall’utilizzo di split screen, attraverso i quali è possibile osservare più eventi nel loro contemporaneo svolgimento.
Come Jack Bauer anche l’agente della CIA Carrie Mathison insegue le minacce terroristiche e riesce a sventare i piani di distruzione ai danni del suo Paese. Spesso, a causa del disturbo bipolare che la affligge, le intuizioni della protagonista di Homeland – Caccia alla spia (2011-2020), sono screditate dai colleghi che la affiancano nelle indagini. Sia in 24 che in Homeland è centrale il rapporto che si instaura tra il tempo del racconto e la trama, che a sua volta rimanda ad un’attualità segnata dalle minacce terroristiche, ai loro effetti sulle passioni collettive e ai risvolti sulle scelte politiche dei governi sotto attacco. Se 24 fonda la sua tensione narrativa sull’incombenza del rischio, in Homeland il paradigma della caccia alla spia attiva una triplice temporalità: un’inchiesta verso il passato prossimo, condotta secondo le regole della spy story, una diagnosi sul presente che si concentra sui regimi di visibilità connessi alle guerre contro i terrorismi, infine una prognosi degli scenari geopolitici futuri (Tagliani 2016).
Riprese, anticipazioni e sovrapposizioni tra il racconto seriale e la dimensione evenemenziale sono il segnale di una tendenza più generale che coinvolge le logiche mediali dopo l’11/09 e che Richard Grusin (2011) ha definito con il termine di premediazione. Quest’ultima porta i media a concentrarsi non tanto e non solo verso ciò che accade o è accaduto, quanto piuttosto verso ciò che accadrà o potrebbe accadere. Con l’11/09 le narrazioni mediali affiancano alla riconfigurazione di esperienze, formati e immagini provenienti dal passato, una prefigurazione – una messa in tensione del futuro – necessaria a soddisfare il desiderio di anticipazione e protezione nei confronti delle catastrofi e dei traumi a venire.
Rielaborare il trauma
La singolarità ripetitiva e anestetizzante della trasmissione televisiva del crollo delle Twin Towers ha eroso molte delle interpretazioni possibili connesse a queste immagini, rendendo indistinguibili il piano della documentazione dei fatti dalla loro messa in scena spettacolare, e di conseguenza ha escluso molti degli spettatori da una metabolizzazione cognitiva dell’evento (Montani 2009). In altri termini, la diretta in tempo reale dell’attentato e la sua incessante ripetizione hanno saturato i flussi mediali ma non hanno favorito la possibilità di elaborare il trauma collettivo. Al contrario, l’evento mediale in diretta globale ha trasformato lo shock prodotto dalla tragedia in una coazione a ripetere su scala planetaria (Dinoi 2008).
Nel tentativo di costruire uno spazio narrativo per rinsaldare i legami comunitari e provare a rielaborare il trauma, si è assistito alla crescita di trame incentrate sulle comunità attraversate da traumi che stentano a ricomporsi, frantumate da eventi drammatici, terrorizzate dalla minaccia di un’alterità spesso ignota. Non è un caso se la proliferazione di serie tv che trattano le sorti di una comunità sia direttamente connessa, o presenti delle eco, con questi eventi: se l’attacco alle Twin Towers ha reso labili, a tratti indistinguibili, i confini tra la finzione audiovisiva e la documentazione degli eventi, la Guerra al terrore ha inaugurato una modalità del conflitto fondata sulla diffusione della paura nei confronti dell’alterità e ha alimentato un immaginario mediatico in cui il terrorista può insediarsi in seno al corpo sociale e colpirlo brutalmente.
Tra gli antesignani di questa tendenza c’è Lost (2004-2010). La serie viene trasmessa a quattro anni di distanza dall’attentato del 2001 e non è difficile intravedere dei rimandi tra quanto accade ai suoi personaggi sopravvissuti a un incidente aereo e dispersi su un’isola ignota abitata dalla comunità degli “Altri”, e la ricostruzione, a partire dalle macerie di Ground Zero, dell’orizzonte simbolico, identitario e valoriale da parte della società statunitense.
The Leftovers (2014-2017) prende le mosse da una dipartita di massa: il 14 ottobre del 2011, senza alcun motivo apparente, il 2% della popolazione svanisce nel nulla. Nello stesso istante ma in luoghi diversi, milioni di uomini, donne e bambini abbandonano misteriosamente la Terra. Nel caso della Sudden Departure la retorica bellica trova pochi appigli: nessun nemico a cui giurare vendetta, nessun cadavere da seppellire, nessun mausoleo da poter erigere per ricordare coloro i quali non sono né vivi e né morti.
Con The Leftovers Damon Lindelof, ideatore della serie tv assieme a Tom Perrotta, prosegue nella costruzione di una geografia degli spazi comunitari, inaugurata con Lost. Entrambe le serie tematizzano infatti le possibilità di rifondazione e riterritorializzazione dei rapporti sociali e delle forme dello stare insieme. Più in generale, le logiche della serialità, fondate sulla ripetizione e la dilatazione del racconto, sono state capaci di riaprire le ferite traumatiche dell’11/09 e al contempo di costruire mondi narrativi in cui è possibile ripercorrere il recente passato, comprenderne i lasciti nel presente e prefigurare immaginari futuri.
Riferimenti bibliografici
M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008.
R. Grusin, Radical mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di A. Maiello, Pellegrini, Cosenza 2011.
J. Mittell, Complex tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, a cura di F. Guarnaccia e L. Barra, Minimum Fax, Roma 2017.
P. Montani, La funzione testimoniale dell’immagine, in “XXI secolo. Comunicare e rappresentare”, a cura di T. Gregory, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009, pp. 447-488.
D. Moïsi, La geopolitica delle serie TV. Il trionfo della paura, Armando, Roma 2017.
G. Tagliani, Homeland. Paura e sicurezza nella guerra al terrore, Edizioni Estemporanee, Roma 2016.