«Manicomio, manicomio!», le grida si alzano dalla platea e dai palchi del Teatro Valle di Roma, dopo che il sipario si apre su un altro sipario di un altro generico teatro italiano. La scena rappresenta un’altra scena, in cui una compagnia, guidata dal capocomico, sta provando la commedia di Pirandello Il giuoco delle parti. A un certo punto irrompono sei individui, una famiglia di personaggi “abbandonati” dal loro autore, che raccontano la loro storia alla compagnia sperando possa essere rappresentata. È il 9 maggio del 1921, la sera della prima dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello. Un «manicomio» appunto, il grido destinato a risuonare in eterno tra le mura del Valle, confondendosi con le note della sinfonia della Cenerentola di Gioacchino Rossini del 1817, o quelle del Torquato Tasso di Gaetano Donizetti del 1824, e dei tanti capolavori che sono nati in quello storico teatro.

A cosa faceva riferimento esattamente il sentimento di spaesamento manicomiale dello spettatore davanti alla scena dei Sei personaggi? Non si trattava in realtà solamente della confusione al cospetto del primo grande esperimento metateatrale di Pirandello, tantomeno dell’ennesima esperienza realizzata di teatro nel teatro (si pensi già a Shakespeare o a Goldoni). Davanti a loro prendeva corpo la più radicale rottura del dispositivo drammaturgico novecentesco (a cui seguiranno quelle di Brecht e di Beckett), la crisi definitiva del dramma borghese realista a cui il pubblico dell’epoca era abituato. Un’interrogazione sulla possibilità della rappresentazione di dare forma alla vita, di esteriorizzare attraverso l’imitazione i sentimenti e le emozioni dei personaggi, che avveniva senza alcuna mediazione di un mythos realista (come nel terzo Atto di Amleto). In altre parole, il manicomio consisteva nella resa materiale direttamente in scena del più grande interrogativo della storia del dramma moderno, da Shakespeare in poi, deflagrato in un’esperienza immediata e diretta.

Ma il dramma di Pirandello si misurava anche con uno degli snodi decisivi delle estetiche delle società borghesi e protocapitalistiche all’inizio del Novecento. Quando le esperienze della vita diventavano «intellettualizzate» (Lukács 2020, p. 130), più interiori che esteriori, e l’individuo si trovava alle prese con una solitudine complessa e autosufficiente, autentica condizione esistenziale dell’uomo moderno, come poter tradurre sul piano dell’azione drammatica un’autenticità puramente interiore? È uno dei temi decisivi della riflessione sull’ontologia del dramma moderno, che la prospettiva di Pirandello interroga a partire proprio dal concetto di azione e dalla sua centralità nelle estetiche drammatiche a cavallo del secolo. Dai primi scritti saggistici, di chiara matrice idealistica e hegeliana, a saggi come L’azione parlata (1899), Illustratori, attori e traduttori (1908), la Prefazione alla Francesca da Rimini (1906) di Giovanni Alfredo Cesareo, il punto di partenza di tutta l’architettura drammaturgica pirandelliana è l’essere pensato come essenza soggettiva, che si traduce nell’atto in termini immediati. «L’essere e l’atto coincidono» perché «in ogni nostro atto è sempre tutto l’essere» (Pirandello 1899, p. 2) scrive riprendendo la Scienza della logica di Hegel, in particolare le sue riletture “attualistiche” che di lì a poco troveranno esito nella filosofia di Giovanni Gentile. Poi prosegue: «In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è insomma come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso» (ivi, p. 3).

Nella Prefazione a Francesca da Rimini questo stesso concetto è ripreso in relazione al dramma e alla sua valenza teatrale: «Fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovar la parola che, pur rispondendo a un atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che il poeta deve superare» (Pirandello 1977, p. 979). In altre parole, l’atto coincide con la totalità dell’essere perché – per usare la sua metafora – l’atto è come la faccia di un poliedro che ne contiene in sé tutte le altre. Ogni azione che viene compiuta comprende in sé il soggetto che la compie senza alcuna mediazione, e il darsi soggettivo nell’azione è totale e radicale, in quanto ogni azione è interamente imputabile a chi l’ha compiuta e realizzata.

Se l’egemonia della prassi si identifica con una concezione tipicamente idealistica della soggettività intesa come un io agente, nello specifico del dramma tale primato si traduce nella nota teoria di Pirandello secondo cui l’azione coincide radicalmente con il carattere, ovvero con il personaggio. Non solo, scrive in Illustratori, attori e traduttori: tanto meno il personaggio «si mostrerà soggetto alla intenzione o ai modi dell’autore, alle necessità dello sviluppo del fatto immaginato; quanto meno si mostrerà cioè strumento passivo d’una data azione», quanto più egli sarà «determinato e superiore» (Pirandello 1994, p. 224). In altri termini, tanto più il personaggio sarà percepito come libero e autonomo, come un’individualità completa, espressione di una volontà autonoma rispetto allo sguardo terzo del suo autore, quanto più la sua azione sarà percepita come autenticamente determinata. Questo è dunque per Pirandello, almeno in quegli anni, il senso del dramma teatrale: la rappresentazione di un’azione che coincide con la totalità del personaggio che l’ha prodotta dando l’illusione che quell’azione sia del tutto libera e autonoma dalla volontà dell’autore. Una direttrice del pensiero molto chiara e significativa che si fonda su due punti fondamentali: la coincidenza tra essere e atto, cioè l’integrale assimilazione dell’azione al soggetto che la compie, e la conseguente convergenza tra personaggio e destino, ovvero il fatto che la determinatezza del personaggio drammatico si fondi sull’apparente autosufficienza e autonomia del suo movimento attivo rispetto all’orizzonte chiuso del destino rappresentato dal dispositivo drammaturgico.

Ma ecco arrivare la svolta metateatrale degli anni 1920 dei Sei personaggi, e del “manicomio” di quella sera di maggio. Perché se in una fase iniziale tale prospettiva fonda tutto l’impianto drammaturgico di Pirandello, l’assunto teorico su cui si fondano i Sei personaggi e la produzione successiva, pur muovendo dallo stesso interrogativo, lo risolve in modo del tutto opposto e antitetico. Qui è proprio la crisi del concetto di azione, il suo venire meno ad un’adesione al personaggio, e di conseguenza all’individuo, a rappresentare il cardine della radicale messa in discussione della dimensione unitaria del soggetto, della sua possibilità di dare forma esterna e oggettuale alla sua identità determinata. È la crisi dell’azione tematizzata nel famoso monologo del Padre dei Sei personaggi, in cui il primato dell’atto sull’identità poliedrica dell’io, per come era stata formulata negli scritti di vent’anni prima, viene interamente rovesciato:

Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede “uno” ma è vero: è “tanti”, signore, “tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: “uno” con questo, “uno” con quello – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’esser sempre “uno per tutti”, e sempre “quest’uno” che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce n’accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi; ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell’atto! (Pirandello 1921, p. 48).

L’impossibilità di dare corpo all’io nell’atto che descrive il monologo del Padre, l’incapacità cioè dell’io nella sua interezza di oggettivarsi nell’azione, capovolgendo la concezione assolutistica del soggetto de L’azione parlata, è ciò che, ad esempio secondo la Teoria del dramma moderno di Peter Szondi, porta alla cosiddetta “epicizzazione” del teatro novecentesco. Se gli attori che interpretano la famiglia dei Sei personaggi non possono impersonare e dare corpo in modo compiuto al loro destino, allora la famiglia stessa lo deve raccontare attraverso un «dramma impossibile» – come lo definisce Szondi (Szondi 2000, p. 112) – che cioè, seppur in una cornice pseudodrammatica, assume una forma epica e restituisce il destino dei personaggi in una narrazione.

È dunque una svolta epocale, quella che esattamente un secolo fa, in una calda serata primaverile romana, inchiodava gli spettatori davanti al «manicomio» del teatro, alla sua impossibilità necessaria. È la fine della logica drammatica classica e aristotelica, che porterà all’epica brechtiana o alle lunghe attese beckettiane. Ma anche l’inizio di quella separazione tra “dramma” e “teatro”, che nel Novecento e oltre costituiranno due piani sempre più separati e autonomi. Uno scarto epocale, capace di cambiare in modo definitivo la storia di un’arte millenaria, che in quella serata al Valle forse nessuno poteva immaginare.

Riferimenti bibliografici
G. Lukács, L’anima e l’azione. Scritti su cinema e teatro, a cura di F. Ceraolo, Pellegrini, Cosenza 2020.
L. Pirandello, L’azione parlata, in “Il Marzocco”, anno IV, n. 14, 7 maggio 1899.
Id., La “Francesca da Rimini” di G.A. Cesareo, in Saggi, poesie, scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Mondadori, Milano 1977.
Id., Illustratori, attori e traduttori, in Arte e scienza, Mondadori, Milano 1994.
Id., Sei personaggi in cerca d’autore, R. Bemporad e Figlio editori, Firenze 1921.
P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 2000.

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