In un prezioso e a maggior ragione, a cento anni dalla nascita, commovente documentario di Roberto Andò, Il cineasta e il labirinto (2002), nel finale Francesco Rosi si interrogava con disappunto sulla morte, appunto come “momento” estremo di quella “verità” inseguita tutta una vita e che gli sarebbe venuta a mancare. Era questo a indispettirlo ulteriormente. Il titolo Il momento della verità (1965), parlando di tauromachia e di morte in senso lato, che accomunava nella tragedia il toro e il toreador, era emblematico. Rosi chiudeva il film di Andò, al culmine di una serie di finali mortali, quello di Tre fratelli (1981), quindi di Cadaveri eccellenti (1975), Cronaca di una morte annunciata (1987) e Carmen (1984), due dei quali la morte l’avevano appunto anche nel titolo, affermando che la morte concettualmente proprio non la sopportava. Da buon intellettuale illuminista, di un illuminismo di scuola meridionale, pungolato dal dubbio e dallo scetticismo persistenti e costruttivi, era visibilmente irritato:
Quel momento di andarsene via, di lasciare le persone che ami, di lasciare le cose che ami, le cose della vita alle quali hai dedicato tutta un’esistenza, forse perché io non sono un credente, e quindi non ho questa forza della fede, per cui quel momento lì è una rinascita, per me quel momento diventa inaccettabile. Per il momento non mi fa paura, a parte qualche raro momento che… pom… uno un momentino di angoscia ce l’ha. Però è proprio… Non mi piace!
Come poteva del resto arrendersi di fronte a questo fatto inspiegabile, lui, autore di capolavori politico-indiziari, come Salvatore Giuliano (1962), Le mani sulla città (1963), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973) e Cadaveri eccellenti, alle prese con i misteri d’Italia, le trame oscure e irrisolte che ipotecano la piena conoscenza storica, morale e giudiziaria dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri?
Ci sono anniversari che hanno un sapore particolare. A maggior ragione quando ci sono film che obbligano chiunque, di norma in prima battuta gli studiosi di cinema, a non restarsene al riparo da incombenze storiografiche dirette e ad ampio spettro, specie se di spettri di lunga durata si parla. Si prenda il 2022, che coincide anche con i sessant’anni dall’uscita in sala di Salvatore Giuliano. Se non ci fosse stata la ricorrenza del centenario, quella del sessantesimo per il capolavoro rosiano sarebbe risultata, da sola, curiosa. Perché il maggior esemplare al mondo di film politico-indiziario che è Salvatore Giuliano il traguardo dei sei decenni di storia l’avrebbe tagliato piuttosto nel 2021. Poiché di fatto il film nel 1961 era già pronto, ma clamorosamente i selezionatori della 22ª Mostra del Cinema di Venezia ai quali era stato presentato in copia di lavorazione l’avevano rifiutato. Motivo: il carattere “documentario”. Perciò sarebbe uscito in sala soltanto l’anno successivo, tra la fine di febbraio (il 28 è la data della prima proiezione pubblica) e l’inizio di marzo (l’1 quella dell’arrivo sugli schermi di cento città italiane). Tutto ciò dopo essere rimasto per quaranta giorni fermo alla censura, dove era stato presentato il 24 novembre del 1961.
C’è una ragione se nel suo libro-intervista, Il piacere di essere un altro (scritto con Salvatore Ferlita per La Nave di Teseo, 2022), Andò considera Rosi e Salvatore Giuliano in particolare fonti primarie d’ispirazione. L’autore che in queste settimane ha riportato al cinema il pubblico con La stranezza (2022), raro, significativo e pirandelliano esempio di film d’autore colto e popolare a un tempo, non ha soltanto diretto il bellissimo documentario-ritratto di cui sopra e sempre su Rosi scritto uno dei saggi più intensi, dal titolo emblematico: La bellezza della verità, all’epoca in cui era assistente alla regia in Dimenticare Palermo (1990). E la ragione coincide con la scelta parallela di Giuseppe Tornatore di scrivere a quattro mani con il diretto interessato la monumentale autobiografia in forma di intervista di Rosi, Io lo chiamo cinematografo (edita da Mondadori, 2012, ma purtroppo da anni fuori commercio). E si potrebbe continuare all’infinito, con Nanni Moretti che si ispira dichiaratamente a Le mani sulla città e soprattutto Il caso Mattei per Il Caimano (2006), con Marco Tullio Giordana che fa citare sempre Le mani sulla città in I cento passi (2000) e ne preserva il modello rigoroso in Romanzo di una strage (2012) o ad Andrea Segre che de Le mani sulla città riprende la didascalia finale in L’ordine delle cose (2017). Senza contare gli altri grandi cineasti internazionali che da Rosi hanno imparato a costruire, o meglio decostruire in chiave indiziari castelli di carte false su casi storico-politici eclatanti, da Costantin Costa-Gavras ad Alan J. Pakula e in tempi più recenti Oliver Stone e Tom McCarthy.
La verità, intrinsecamente “bella” come afferma Andò, è che nella storia del cinema Rosi è stato il maggior virtuoso del paradigma politico-indiziario. Più incisivo di tanti storici contemporanei. Quest’istanza civile e investigativa l’ha maturata con largo anticipo persino sull’emblematico Salvatore Giuliano, cioè già ne La sfida (1958) e I magliari (1959), quando ormai era entrato definitivamente in crisi l’approccio neorealistico alla realtà sociale e politica. Addirittura la vocazione per la costruzione civile di ipotesi indiziarie di verità politicamente rilevanti, in estrema sintesi la definizione della nozione di “politico-indiziario” operativa in ambito cinematografico, potrebbe essere fatta risalire al soggetto di Processo alla città (1952) di Luigi Zampa, che con Ettore Giannini il giovane Rosi aveva firmato con notevole lungimiranza d’autore. Era insomma per lui chiaro già allora, non soltanto in senso filmico, che occorreva procedere diversamente sul piano conoscitivo: ipotizzare la verità, decifrandola parzialmente, per lasciarla intravedere o intendere attraverso indizi sapientemente disposti lungo un asse logico-rappresentativo trasversale, non necessariamente cronologico.
Il suo modo di accrescere la conoscenza in relazione a fatti non completamente accertati, da Salvatore Giuliano e Le mani sulla città a Il caso Mattei, Lucky Luciano e Cadaveri eccellenti, ha comportato scelte decostruttive. Con la pars destruens del discorso che traeva spunto dall’esigenza di stabilire nuove connessioni, ossia la pars costruens. Lo scopo è stato sempre quello di trasformare una materia proposta come lineare in un labirinto ragionato di dubbi, verità relative, costantemente suscettibili di riformulazioni. Procedendo dunque per inferenze puntellate da fatti concreti o circostanze documentate, Rosi ha avvertito in continuazione la necessità di concepire il racconto con andirivieni spazio-temporali sintomatici di una concezione complessa, disillusa e dolente della storia. Anche in opere molto diverse tra loro per ispirazione, forza lirica e origine, spesso di matrice letteraria o teatrale, da C’era una volta (1967) e Uomini contro (1970), passando per Cadaveri eccellenti, a Cristo si è fermato a Eboli (1979) e Tre fratelli, da Carmen e Cronaca di una morte annunciata a Dimenticare Palermo e La tregua (1997), aggiungendo quindi i mirati allestimenti scenici di Napoli milionaria (2003), Le voci di dentro (2006) e Filumena Marturano (2008), contano le dinamiche e gli sviluppi possibili dell’inchiesta, del processo, delle commissioni d’inchiesta, dell’indagine poliziesca e della ricerca personale della verità, esteticamente bella in quello stile inconfondibile del migliore allievo di Luchino Visconti o di concerto tragicamente brutta.
Nella storia del cinema italiano e mondiale, Rosi resta sinonimo di una metodologia di ricerca e di indagine aperta, attraverso il mezzo cinematografico, sulle verità misconosciute della storia italiana contemporanea poiché il suo modo di accrescere la conoscenza in relazione a fatti non completamente accertati è stato etico ed dunque empirico, grazie all’accostamento di eventi maggiori e minori all’apparenza non collegati tra loro, non ufficialmente almeno, e soprattutto non consequenziali in termini di semplice e innocua diacronia. Donde il labirinto spazio-temporale, evocato per lui da Tonino Guerra sempre nel documentario di Andò, che in Rosi ha modellato il dubbio permanente della morte, dell’inchiesta propriamente detta, del processo, delle commissioni d’inchiesta, dell’indagine poliziesca e dell’investigazione personale condotta anche da un uomo politico.
Le numerose ed estreme domande rimaste senza risposta che Rosi ha ereditato in itinere anche da Eduardo De Filippo, Emilio Lussu, Leonardo Sciascia, Carlo Levi e Gabriel Garcia Marquez, come quelle che accompagnano le morti emblematiche di Giuliano, Mattei e Luciano, complice questo centenario, dovrebbero convincere chi di dovere a smettere una buona volta di mandare in onda, quando capita, invero molto di rado, i classici di Rosi a orari notturni impossibili. È sempre stato questo, fino all’ultimo, l’auspicio inascoltato dello stresso Rosi riguardo anche alle sue «armi di costruzione di massa»: così Bertrand Tavernier aveva definito i paradigmi rosiani, da collega e grande ammiratore.
Riferimenti bibliografici
R. Andò, S. Ferlita, Il piacere di essere un altro, La nave di Teseo, Milano 2022.
F. Rosi, G. Tornatore, Io lo chiamo cinematografo, Mondadori, Milano 2012.
Francesco Rosi, Napoli 1922 – Roma 2015.